Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica

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Giacomo Leopardi

1818 Saggi letteratura Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica Intestazione 31 maggio 2008 50% Saggi

Se alla difesa delle opinioni de’ nostri padri e de’ nostri avi e di tutti i secoli combattute oggi da molti intorno all’arte dello scrivere e segnatamente alla poetica si fossero levati uomini famosi e grandi, e se agl’ingegni forti e vasti si fosse fatta incontro la forza e la vastità degl’ingegni, e ai pensieri sublimi e profondi, la sublimità e profondità dei pensieri, né ci sarebbe oramai bisogno d’altre discussioni, né quando bene ci fosse stato, avrei però ardito io di farmi avanti. Ora s’è risposto fin qui alle cose colle parole, e agli argomenti colle facezie, e alla ragione coll’autorità, e la guerra è stata fra la plebe e gli atleti, e fra i giornalisti e i filosofi, di maniera che non è maraviglia se questi imbaldanziscono e paiono tenere il campo, e noi tra paurosi e vergognosi e superbi, tenendoci al sicuro come dentro a recinti di muraglie e di torri, gl’insultiamo tuttavia cogli stessi motteggi, quasi ch’esser ultimo a replicare fosse vincere; né però questo stesso ci è conceduto. Ma se la nostra causa è giusta e buona, e se noi siamo gagliardi e valorosi, e se confidiamo nel favore della ragione e della verità, che non usciamo e non combattiamo? e perché mostriamo di non intendere quello che intendiamo ottimamente ma che non ci quadra, o come ci persuadiamo senza nessuna considerazione che sia falso quello che non intendiamo? Forse ci basta di mantenere in quiete la coscienza nostra, e purch’ella con dubbi importuni non ci molesti, e ci lasci Seguitare sicuramente e lietamente i nostri studi e i nostri scritti senza quella formidabile svogliatezza che proviene dal timore di gittare il tempo e le fatiche, non ci curiamo d’altro, e per questo fuggiamo di venire alle prese e giuochiamo largo, non temendo tanto il nemico che è fuori quanto quello ch’è dentro di noi medesimi ? No, per Dio, non sia così; ma non cerchiamo altro che il vero: e se tutto quello che abbiamo imparato è vano, e se quello che parea certo è falso, e quello che credevamo di vedere non si vedeva, e quello che credevamo di toccare non si toccava, e se tanti altissimi ingegni, e tanti dotti e tanti secoli tutti né più né meno si sono ingannati, sia con Dio. Non guardiamo che bisognerà far conto di non avere fino ad ora studiato né sudato, anzi di avere e studiato e sudato da pazzi e per niente, dire addio ai libri quasi nostri amici e compagni, bruciare gli scritti nostri, e in somma farci da capo, e giovani o vecchi che siamo, cominciare una vita nuova: rallegriamoci più tosto che ci sia toccato quello che a’ nostri maggiori non toccò, di conoscere finalmente il vero, e, di questo vero gioviamoci noi e facciamo ch’altri si giovi parimente. Ma se nebbie e sogni e fantasmi sono più tosto le opinioni moderne, e se i nostri antenati hanno veduto chiaro, e se la verità non ha penato tanti secoli a uscire al giorno, perché lasciamo che la gente sia confusa e ingannata, e che la gioventù nostra stia in forse di quale delle due dottrine s’abbia a fidare? Confesso che un silenzio magnanimo pareva a me pure il meglio, anzi la sola cosa che convenisse ai veri savi in questa disputa: e l’esempio de’ veri savi che non ci aprono bocca, non mi confermava nella mia opinione nella quale era fermissimo, ma mi consolava il vedere che il giudizio loro concordava in questo particolare col mio. Nondimeno sì molte altre cose, come l’aver lette e considerate le Osservazioni del Cavaliere Lodovico di Breme intorno alla poesia moderna, secondoché la chiama egli, m’hanno indotto a pensare che se forse il commuoversi di un uomo illustre e il rompere quel silenzio disdegnoso potrebbe nuocere, il comparire di un uomo oscuro il quale dica non motti ma ragioni, non possa nuocere e possa giovare, perché né la sconfitta d’un fiacchissimo combattente potrà pregiudicare alla fama dell’esercito, e caso ch’egli paresse aver fatto qualche cosa, si potrà stimare quante e quanto più grandi ne farebbero i forti. Senz’altro le Osservazioni del Cavaliere a me paiono pericolose; e dico pericolose, perché sono per la più parte acute e ingegnose e profonde, e questo, se a noi non par vero quello che pare al Breme, dobbiamo giudicare che sia pericoloso, potendo persuadere a molti quello che secondo noi è falso, e che certamente è di tanto rilievo quanto le lettere e la poesia. Però così debole come sono, ho deliberato di vedere se l’affetto che porto focosissimo alla mia patria e molto più al vero, mi darà forza dicendo e per la patria e per quello ch’io credo vero. Userò, come ho detto, le ragioni, e niente altro che le ragioni: non so se saranno metafisiche, ma saranno ragioni; e se non tutte o non molte nuove, da questo stesso facilmente si potrà inferire che le opinioni di coloro che si chiamano romantici, posto che non sieno antiche, certo hanno radici antichissime, e con istrumenti d’antichissimo uso si possono abbattere e sradicare.

E come mi terrò lontano da molte usanze di quei che per l’addietro sono venuti a quistione coi romantici, così massimamente non proccurerò né mi vanterò di non intendere, del qual costume si lagna il Breme a ragione, imperocché chi del continuo protesta di non intendere, quegli rifiuta ogni controversia. Ma, dirò pure quello che sento, a volere intender bene il Cavaliere e qualcheduno de’ romantici, forse alle volte non basta né il desiderio né l’ingegno, ma ci vuole un cuore che sappia aprirsi e diffondersi e palpitare d’altro che di paura o cose simili, e una mente non al tutto inesperta del fuoco e dell’impeto delle arti belle. Ora se la mia mente sia tale, e se il mio cuore abbia mai palpitato per cagione non vile, non è cosa da farne discorso: basta ch’io penso d’avere intesi i ragionamenti del Cavaliere: questo però né egli né altro lo dovrà credere alle mie parole, ma sì bene ai fatti, cioè se io nel discutere le osservazioni del Cavaliere, darò indizio d’averle intese. Tratterò della poesia romantica non già pienamente, che questo da vero sarebbe un carico disadatto alle mie spalle, ed io togliendolo mi mostrerei temerario non coraggioso; ma quanto basterà per tener dietro alle Osservazioni predette: e già quest’assunto non è piccolo, anzi io guardando come di lontano la folla delle materie dentro la quale bisogna ch’io mi cacci, quasi mi sbigottisco, e non so che strada troverò d’esser breve in tanta moltitudine di cose e in tanta necessità d’esser chiaro. Tuttavia stimo che agitando le opinioni del Breme verrò anche a tentare i fondamenti delle opinioni romantiche, se bene queste sono così confuse e gregge e scombinate e in gran parte ripugnanti che bisogna quasi assalirle a una a una, e atterrata una parte dell’edifizio, l’altra non pertanto si tiene in piede, segno non di fortezza ma di sconnessione, e però di debolezza. E incominciando dico che non paleserò il nome mio, per non far vista di credere né che altri, letto quello ch’io scriverò, possa desiderare d’aver notizia di chi scrisse, né che il mio nome manifestato vaglia a darmi a conoscere, ignotissimo com’egli è. Per queste cagioni terrò nascosto il mio nome, non per timore, o Italiani, ch’io non temerò mai scrivendo il vero o scrivendo come potrò per voi, né l’odio di chicchessia né il potere o la fama di chicchessia.

Già è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il più che possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà finattantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale. Dice il Cavaliere che la smania poetica degli antichi veniva soprattutto dall’ignoranza, per la quale maravigliandosi balordamente d’ogni cosa, e credendo di vedere a ogni tratto qualche miracolo, pigliarono argomento di poesia da qualunque accidente, e immaginarono un’infinità di forze soprannaturali e di sogni e di larve: e soggiunge che presentemente, avendo gli uomini considerate e imparate, e intendendo e conoscendo e distinguendo tante cose, ed essendo persuasi e certi di tante verità, nelle facoltà loro non sono, dic’egli co’ suoi termini d’arte, compatibili insieme e contemporanei questi due effetti, l’intuizione logica e il prestigio favoloso; smagata è dunque di questa immaginazione la mente dell’uomo. Ora da queste cose, chi voglia discorrer bene e da logico, segue ecessarissimamente che la poesia non potendo più ingannare gli uomini, non deve più fingere né mentire, ma bisogna che sempre vada dietro alla ragione e alla verità. E notate, o lettori, sul bel principio quell’apertissima e famosa contraddizione. Imperocché i romantici i quali s’accorgevano ottimamente che tolta alla poesia già conciata com’essi l’avevano, anche la facoltà di fingere e di mentire, la poesia finalmente né più né meno sarebbe sparita, e di netto si sarebbe immedesimata e diventata tutt’uno colla metafisica, e risoluta in un complesso di meditazioni, non che abbiano soggettata pienamente la poesia alla ragione e alla verità, sono andati in cerca fra la gentaglia presente di ciascheduna classe, e specialmente fra il popolaccio, di quelle più strane e pazze e ridicole e vili e superstiziose opinioni e novelle che si potevano trovare, e di queste hanno fatto materia di poesia; e quello ch’è più mirabile, intantoché maledicevano l’uso delle favole greche, hanno inzeppate ne’ versi loro quante favole turche arabe persiane indiane scandinave celtiche hanno voluto, quasi che l’intuizione logica che col prestigio favoloso della Grecia non può stare, con quello dell’oriente e del settentrione potesse stare. Ma di questa incredibile contraddizione d’aver fatto tesoro delle favole orientali e settentrionali dopo scartate le favole greche come ripugnanti ai costumi e alle credenze e al sapere dell’età nostra, parlerò più avanti a suo luogo. Ora tornando al Cavaliere, seguita egli dicendo immediatamente che la facoltà immaginativa è sostanzialissima nell’uomo, di maniera che non può svanire né scemare, ma per l’opposto arde oggi come sempre d’essere invasa rapita innamorata atterrita E PERFIN SEDOTTA (qui sta il punto); né avverrà mai che non soggiaccia alle ILLUSIONI delle forme armoniche, alle estasi della sublime contemplazione, all’efficacia dei quadri ideali, purché non sieno più arbitrari DEL TUTTO, E DEL TUTTO nudi di analogia con quel vero che ne circonda, o con quello ch’è in noi. Ed ecco come anch’egli concede che la poesia debba ingannare, la qual cosa poi asserisce e conferma risolutamente in cento altri luoghi delle sue osservazioni. A me pare di scorgere molto chiaramente che il Cavaliere medesimo arrivato a questo passo vide che il suo ragionamento si piegava, e la punta si disviava, e s’io non erro, quelle parole perfino e del tutto sono la saldatura ch’egli ci volle fare, come tutto giorno si fa, dopo che quello, torcendosegli fra le mani, se gli fu rotto. Ma questa saldatura è veramente di parole, perché dalle cose precedenti seguita che la poesia non possa né debba ingannare, e se ella può e deve ingannare, tutti i raziocini susseguenti del Cavaliere e dei romantici, non avendo dove posino, è forza che caschino a terra. Imperocché non c’è chi non sappia che bisogna distinguere due diversi inganni; l’uno chiameremo intellettuale, l’altro fantastico. Intellettuale è quello per esempio d’un filosofo che vi persuada il falso. Fantastico è quello delle arti belle e della poesia a’ giorni nostri; giacché non è più quel tempo che la gente si guadagnava il vitto cantando per le borgate e pe’ chiassuoli i versi d’Omero, e che tutta la Grecia raunata e seduta in Olimpia ascoltava e ammirava le storie d’Erodoto più soavi del mele, onde poi nel vederlo, l’uno diceva all’altro, mostrandolo a dito: Questi è quegli che ha scritte le guerre di Persia, e lodate le vittorie nostre1: ma oggi i lettori o uditori del poeta non sono altro che persone dirozzate e, qual più qual meno, intelligenti: vero è ch’il poeta in certo modo deve far conto di scrivere pel volgo; se bene i romantici pare che vengano a volere per lo contrario ch’egli scriva pel volgo e faccia conto di scrivere per gl’intelligenti, le quali due cose sono contraddittorie, ma quelle che ho detto io, non sono; perché la fantasia degl’intelligenti può bene, massime leggendo poesie e volendo essere ingannata, quasi discendere e mettersi a paro di quella degl’idioti, laddove la fantasia degl’idioti non può salire e mettersi a paro di quella degl’intelligenti. Ora di questi che ho detto essere i lettori o uditori del poeta, l’intelletto non può essere ingannato dalla poesia, ben può essere ed è ingannata molte volte l’immaginativa. Il Cavaliere dunque e coi Cavaliere i romantici quando gridano che il poeta nel fingere s’adatti ai costumi e alle opinioni nostre e alle verità conosciute presentemente, non guardano che il poeta non inganna gl’intelletti né gl’ingannò mai, se non per avventura in quei tempi antichissimi che ho detto di sopra, ma solamente le fantasie; non guardano che sapendo noi così tosto come, aperto un libro, lo vediamo scritto in versi, che quel libro è pieno di menzogne, e desiderando e proccurando quando leggiamo poesie, d’essere ingannati e nel metterci a leggere preparando e componendo quasi senz’avvedercene la fantasia a ricevere e accogliere l’illusione, è ridicolo a dire che il poeta non la possa illudere quando non s’attenga alle opinioni e ai costumi nostri, quasi che noi non le dessimo licenza di lasciarsi ingannare più che tanto, e che ella non avesse forza di scordarsi né il poeta di farle scordare e opinioni e consuetudini e checchessia, non guardano che l’intelletto in mezzo al delirio dell’immaginativa conosce benissimo ch’ella vaneggia, e onninamente e sempre tanto crede al meno falso quanto al più falso, tanto agli Angeli del Milton e alle sostanze allegoriche del Voltaire quanto agli Dei d’Omero, tanto agli spettri del Bürger e alle befane del Southey, quanto all’inferno di Virgilio, tanto che un Angelo collo scudo celeste «di lucidissimo diamante» abbia difeso Raimondo, quanto che Apollo coll’egida «irsuta» e «fimbriata» abbia preceduto Ettore nella battaglia. In somma tutto sta, come ho detto da principio, se la poesia debba illudere o no; se deve, com’è chiaro che deve, e come i romantici affermano spontaneamente, tutto il resto non è altro che parole e sofisticheria e volerci far credere a forza d’argomenti quello che noi sappiamo che non è vero; perché in fatti sappiamo che il poeta sì come per cristiano e filosofo e moderno che sia in ogni cosa, non c’ingannerà mai l’intelletto, così per pagano e idiota e antico che si mostri, c’ingannerà l’immaginazione ogni volta che fingerà da vero poeta.

Resta perciò che questi potendo illudere come vuole, scelga dentro i confini del verisimile quelle migliori illusioni che gli pare, e quelle più grate a noi e meglio accomodate all’ufficio della poesia, ch’è imitar la natura, e al fine, ch’è dilettare. E sia pure più malagevole a preparare quelle illusioni che ci debbono quasi vestire d’opinioni e consuetudini diverse dalle nostre: non è obbligo né virtù del poeta lo scegliere assunti facili, ma il fare che paiano facili quelli che ha scelti. Ora bisogna vedere se quel poeta che non va molto dietro alle opinioni e alle usanze d’oggidì, posto che del rimanente sia gran poeta, diletta più o meno gli animi, seconda più o meno la natura e per tanto il buon gusto, di chi tuttavia s’attiene alle cose presenti: imperocché è manifesto che quella strada la quale conduce al maggiore e sostanziale e sodo e puro e naturale diletto degli uditori, quella senz’altro va tenuta nella poesia, non potendo accadere che questa c’inganni mai altro che l’immaginativa. Ma forse, contuttoch’il volgo, non mica ieri né ierlaltro, ma da lunghissimo tempo abbia finito di sentire la voce dei poeti, vorranno i romantici che anch’egli debba essere effettivamente uditore o lettore del poeta; e questo mentreché si sforzano di rendere la poesia quanto più possono astrusa e metafisica e sproporzionata all’intelligenza del volgo. Comunque sia, poniamo che questo possa essere indotto ad ascoltare o leggere i poeti: più facilmente crederò che altri speri di farlo di quello che si possa fare; ma poniamo che sia fatto, e che però anche l’illusione intellettuale sia possibile al poeta: primieramente domando quale delle due sia meglio; o adattandosi alla religione alle opinioni ai costumi e in questa maniera conciliandosi la credenza del popolo, e contuttociò mentendo così per la necessità della poesia; come perché grandissima parte delle opinioni del popolo è falsa, ingannarlo positivamente, e riempiergli la testa d’errori e di fandonie, e conficcarci meglio quelle che ci sono, e confortarlo alle fanciullaggini, e accrescergli le superstizioni e gli spauracchi, e corroborargli l’ignoranza; o seguendo altre opinioni e costumi, fingere in maniera che il volgo abbia sì bene da tali finzioni quel diletto ch’è il fine della poesia, ma non le creda fuorché coll’immaginativa, e quindi senza nessun danno. Imperocché, tratta materia di poesia dalla religione e dalle opinioni e dai costumi presenti, di necessità deve accadere una di queste tre cose; o che il poeta non menta mai, e non sia più poeta; o che mentendo inganni gl’intelletti del volgo, e gli noccia veramente ed ampiamente, sopraccaricandolo di credenze vane e malvage, atteso ch’in materia di religione, secondo noi, qualunque credenza falsa è malvagia; o che gl’inganni solamente le immaginative, e da questo (conceduto che possa avvenire, che certo non avverrebbe se non di rarissimo, perché il volgo per lo più crederebbe da vero) discendo a quello ch’io voleva dire in secondo luogo, cioè che potendo il poeta ingannare le fantasie anche quando non s’attenga alle credenze e agli usi moderni, quello che s’è detto in proposito degl’intelligenti, dee valere anche per gl’idioti; sì che per questi parimente andrebbero scelte quelle finzioni che dilettassero meglio, più o meno che ingannassero, stante ch’il fine della poesia non è l’ingannare ma il dilettare: l’inganno pel poeta è un mezzo, capitalissimo certo, ma basta l’inganno dell’immaginazione, se no nessuno degl’intelligenti sarebbe dilettato dalla poesia, e quell’inganno che può stare col vero e proprio diletto poetico. Queste cose che ho dette del popolo, bisogna intenderle dirittamente, il che avverto perché quasi pare ch’io tenga contro i romantici che la poesia non debba esser popolare, quando e noi la vogliamo popolarissima, e i romantici la vorrebbero metafisica e ragionevole e dottissima e proporzionata al sapere dell’età nostra del quale il volgo partecipa poco o niente. Ma già ho notato due volte questa contraddizione dei romantici, e di contraddizioni la nuova filosofia ne ribocca; talmente che forse in progresso mi toccherà qualche altra volta di combattere due opinioni contrarie, l’una delle quali s’avvicini alla nostra, e se il lettore non ci guarderà molto per minuto, gli dovrà parere ch’io combatta me medesimo. Ora cerchiamo quello che ho detto, cioè quale delle due maniere sia più naturale nella poesia e più sodamente dilettevole tanto agl’intelligenti che agl’idioti, voglio dire o l’antica o la moderna. E l’esperienza e la conversazione scambievole e lo studio e mille altre cagioni che non occorre dire, ci hanno fatti col tempo tanto diversi da quei nostri primi padri che se questi risuscitassero, si può credere che a stento ci ravviserebbero per figli loro. Laonde non è maraviglia se noi così pratici e dotti e così cambiati come siamo, ai quali è manifesto quello che agli antichi era occulto, e noto un mondo di cagioni che agli antichi era ignoto, e certo quello che agli antichi era incredibile, e vecchio quello che agli antichi era nuovo, non guardiamo più la natura ordinariamente con quegli occhi, e nei diversi casi della vita nostra appena proviamo una piccolissima parte di quegli effetti che le medesime cagioni partorivano ne’ primi padri. Ma il cielo e il mare e la terra e tutta la faccia del mondo e lo spettacolo della natura e le sue stupende bellezze furono da principio conformate alle proprietà di spettatori naturali: ora la condizione naturale degli uomini è quella d’ignoranza; ma la condizione degli scienziati che contemplando le stelle, sanno il perché delle loro apparenze, e non si maravigliano del lampo né del tuono, e contemplando il mare e la terra, sanno che cosa racchiuda la terra e che cosa il mare, e perché le onde s’innoltrino e si ritirino, e come soffino i venti e corrano i fiumi e quelle piante crescano e quel monte sia vestito e quell’altro nudo, e che conoscono a parte a parte gli affetti e le qualità umane, e le forze e gli ordigni più coperti e le attenenze e i rispetti e le corrispondenze del gran composto universale, e secondo il gergo della nuova disciplina le «armonie della natura» e le «analogie» e le «simpatie», è una condizione artificiata: e in fatti la natura non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti: ma la natura così violentata e scoperta non concede più quei diletti che prima offeriva spontaneamente. E quello che dico degli scienziati dico proporzionatamente più o meno di tutti gl’inciviliti, e però di noi, massime di quella parte di noi che non è plebe, e tra la plebe di quella parte ch’è cittadina, e di qualunque è più discosto dalla condizione primitiva e naturale degli uomini. Non contendo già dell’utile, né mi viene pure in mente di gareggiare con quei filosofi che piangono l’uomo dirozzato e ripulito e i pomi e il latte cambiati in carni, e le foglie d’alberi e le pelli di bestie rivolte in panni, e le spelonche e i tuguri in palazzi, e gli eremi e le selve in città: non è del poeta ma del filosofo il guardare all’utile e al vero: il poeta ha cura del dilettoso, e del dilettoso alla immaginazione, e questo raccoglie così dal vero come dal falso, anzi per lo più mente e si studia di fare inganno, e l’ingannatore non cerca il vero ma la sembianza del vero. Le bellezze dunque della natura conformate da principio alle qualità ed ordinate al diletto di spettatori naturali, non variano pel variare de’ riguardanti, ma nessuna mutazione degli uomini indusse mai cambiamento nella natura, la quale vincitrice dell’esperienza e dello studio e dell’arte e d’ogni cosa umana mantenendosi eternamente quella, a volerne conseguire quel diletto puro e sostanziale ch’è il fine proprio della poesia (giacché il diletto nella poesia scaturisce dall’imitazione della natura), ma che insieme è conformato alla condizione primitiva degli uomini, è necessario che, non la natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura, e però la poesia non si venga mutando, come vogliono i moderni, ma ne’ suoi caratteri principali, sia, come la natura, immutabile. E questo adattarsi degli uomini alla natura, consiste in rimetterci coll’immaginazione come meglio possiamo nello stato primitivo de’ nostri maggiori, la qual cosa ci fa fare senza nostra fatica il poeta padrone delle fantasie. Ora che così facendo noi, ci s’apra innanzi una sorgente di diletti incredibili e celesti, e che la natura invariata e incorrotta discopra allora non ostante l’incivilimento e la corruzione nostra il suo potere immortale sulle menti umane, e che in somma questi diletti sieno anche oggidì quelli che noi pendiamo naturalmente a desiderare sopra qualunque altro quando ci assettiamo ad essere ingannati dalla poesia, di leggeri si può comprendere, sol tanto che, oltre il fatto medesimo, si ponga mente alla nostra irrepugnabile inclinazione al primitivo, e al naturale schietto e illibato, la quale è per modo innata negli uomini, che gli effetti suoi perché sono giornalieri non si considerano, e accade in questa come in mille altre cose, che la frequenza impedisce l’attenzione. Ma da quale altra fonte derivano e il nostro infinito affetto alla semplicità de’ costumi e delle maniere e del favellare e dello scrivere e d’ogni cosa; e quella indicibile soavità che ci diffonde nell’anima non solamente la veduta ma il pensiero e le immagini della vita rustica, e i poeti che la figurano, e la memoria de’ primi tempi, e la storia de’ patriarchi e di Abramo e d’Isacco e di Giacobbe e dei casi e delle azioni loro ne’ deserti e della vita nelle tende e fra gli armenti, e quasi tutta quella che si comprende nella Scrittura e massimamente nel libro della Genesi; e quei moti che ci suscita e quella beatitudine che ci cagiona la lettura di qualunque poeta espresse e dipinse meglio il primitivo, di Omero di Esiodo di Anacreonte, di Callimaco singolarmente? E quelle due capitali disposizioni dell’animo nostro, l’amore della naturalezza e l’odio dell’affettazione, l’uno e l’altro ingeniti, credo, in tutti gli uomini, ma gagliardissimi ed efficacissimi in chiunque ebbe dalla natura indole veramente accomodata alle arti belle, provengono parimente dalla nostra inclinazione al primitivo. E questa medesima fa che qualora ci abbattiamo in oggetti non tocchi dall’incivilimento, quivi e in ogni reliquia e in ogni ombra della prima naturalezza, quasi soprastando, giocondissimamente ci compiacciamo con indistinto desiderio; perché la natura ci chiama e c’invita, e se ricusiamo, ci sforza, la natura vergine e intatta, contro la quale non può sperienza né sapere né scoperte fatte, né costumi cambiati né coltura né artifizi né ornamenti, ma nessuna né splendida né grande né antica né forte opera umana soverchierà mai né pareggerà, non che altro, un vestigio dell’opera di Dio. E che questo che ho detto, sia vero, chi è di noi, non dico poeta non musico non artefice non d’ingegno grande e sublime, dico lettore di poeti e uditore di musici e spettatore d’artefici, dico qualunque non è così guasto e disumanato e snaturato che non senta più la forza di nessuna fuorché lorda o bassa inclinazione umana e naturale, – chi è che non lo sappia e non lo veda e non lo senta e non lo possa confermare col racconto dell’esperienza propria certissima e frequentissima? E se altri mancano, chiamo voi, Lettori, in testimonio, chiamo voi stesso o Cavaliere: non può mancare a voi quell’esperienza ch’io cerco, non può ignorare il cuor vostro quei moti ch’io dico, non può essere che la natura incorrotta, che il primitivo, che la candida semplicità, che la lezione de’ poeti antichi non v’abbia inebbriato mille volte di squisitissimo diletto; voi fatemi fede che come le forme primitive della natura non sono mutate né si muteranno, così l’amore degli uomini verso quelle non è spento né si spegnerà prima della stirpe umana. Ma che vo io cercando cose o minute o scure o poco note, potendo dirne una più chiara della luce, e notissima a chicchessia, della quale ciascuno, ancorché non apra bocca, mi debba essere testimonio? Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio; quando la maraviglia tanto grata a noi che spessissimo desideriamo di poter credere per poterci maravigliare, continuamente ci possedeva; quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo degl’insetti quando il canto degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo o disusato, né trascuravamo nessun accidente come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento nostro, e a talento nostro l’abbellivamo; quando le lagrime erano giornaliere, e le passioni indomite e svegliatissime, né si reprimevano forzatamente e prorompevano arditamente. Ma qual era in quel tempo la fantasia nostra, come spesso e facilmente s’infiammava, come libera e senza freno, impetuosa e istancabile spaziava, come ingrandiva le cose piccole, e ornava le disadorne, e illuminava le oscure, che simulacri vivi e spiranti che sogni beati che vaneggiamenti ineffabili che magie che portenti che paesi ameni che trovati romanzeschi, quanta materia di poesia, quanta ricchezza quanto vigore quant’efficacia quanta commozione quanto diletto. Io stesso mi ricordo di avere nella fanciullezza appreso coll’immaginativa la sensazione d’un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo; io mi ricordo d’essermi figurate nella fantasia, guardando alcuni pastori e pecorelle dipinte sul cielo d’una mia stanza, tali bellezze di vita pastorale che se fosse conceduta a noi così fatta vita, questa già non sarebbe terra ma paradiso, e albergo non d’uomini ma d’immortali; io senza fallo (non m’imputate a superbia, o Lettori, quello che sto per dire) mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui. Ora che la memoria della fanciullezza e dei pensieri e delle immaginazioni di quell’età ci sia straordinariamente cara e dilettevole nel progresso della vita nostra, non voglio né dimostrarlo né avvertirlo: non è uomo vivo che non lo sappia e non lo provi alla giornata, e non solamente lo provi, ma se ne sia formalmente accorto, e purch’abbia filo d’ingegno e di studio, se ne sia maravigliato. Ecco dunque manifesta e palpabile in noi, e manifesta e palpabile a chicchessia la prepotente inclinazione al primitivo, dico in noi stessi, cioè negli uomini di questo tempo, in quei medesimi ai quali i romantici proccurano di persuadere che la maniera antica e primitiva di poesia non faccia per loro. Imperocché dal genio che tutti abbiamo alle memorie della puerizia si deve stimare quanto sia quello che tutti abbiamo alla natura invariata e primitiva, la quale è né più né meno quella natura che si palesa e regna ne’ putti, e le immagini fanciullesche e la fantasia che dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasia degli antichi, e le ricordanze della prima età e le idee prime nostre che noi siamo così gagliardamente tratti ad amare e desiderare, sono appunto quelle che ci ridesta l’imitazione della natura schietta e inviolata, quelle che ci può e secondo noi ci deve ridestare il poeta, quelle che ci ridestano divinamente gli antichi, quelle che i romantici bestemmiano e rigettano e sbandiscono dalla poesia, gridando che non siamo più fanciulli: e pur troppo non siamo; ma il poeta deve illudere, e illudendo imitar la natura, e imitando la natura dilettare: e dov’è un diletto poetico altrettanto vero e grande e puro e profondo? e qual è la natura se questa non è? anzi qual è o fu mai fuorché questa? Nelle usanze e nelle opinioni e nel sapere del tempo nostro cercheremo la natura e le illusioni? Che natura o che leggiadra illusione speriamo di trovare in un tempo dove tutto è civiltà, e ragione e scienza e pratica e artifizi; quando non è luogo né cosa che abbia potuto essere alterata dagli uomini, in cui la natura primitiva apparisca altrimenti che a somiglianza di lampo rarissimo, dovunque coperta e inviluppata come nel più grosso o fitto panno che si possa pensare; quando la maraviglia è vergogna; quando non è quasi specie non forma non misura non effetto non accidente menomissimo di passione ch’altri non abbia avvertito e non avverta ed esplori e distingua e smidolli; quando il cuor nostro o disingannato dall’intelletto non palpita, o se anche palpita, corre tosto l’intelletto a ricercargli e frugargli tutti i segreti di questo palpito, e svanisce ogn’illusione svanisce ogni dolcezza svanisce ogni altezza di pensieri; quando si spiano e s’uccellano gli andamenti dell’animo nostro non altrimenti che i cacciatori facciano le salvaggine; quando gli affetti i moti i cenni i diversi casi del cuore e della volontà umana si prevedono e predicono come fanno gli astronomi le apparenze delle stelle e il ritorno delle comete; quando non è persona d’ingegno alquanto vivo ed esercitato che non conosca l’indole e i pregi e i difetti propri, e non sappia descrivere le cagioni de’ fatti e de’ pensieri suoi, e discutere le speranze e i timori della sua vita futura, e pronosticare di se medesimo e delle vicende del cuor suo; quando la scienza dell’animo umano già certa e quasi matematica e risolutamente «analitica», secondo l’idioma scolastico de’ moderni, per poco non s’espone con angoli e cerchi, e non si tratta per computi e formole numerali? «La vicendevole fratellanza delle scienze e delle arti, i miracoli dell’industria», l’esperienze le scoperte gli effetti dell’incivilimento daranno lena, secondoché dice il Cavaliere, alla fantasia? quelle cose che l’affogano ravviveranno? la ragione ch’a ogni poco la mette in fuga e la perseguita e l’assalisce e quasi la sforza a confessare ch’ella sogna, l’esperienza che l’assedia e la stringe e le oppone al volto la sua molestissima lucerna, la scienza che le contrasta e le sbarra tutti i passi col vero, queste cose alimenteranno e conforteranno l’immaginativa? Non le angustie, non le carceri non le catene danno baldanza alla fantasia, ma la libertà, né per lei sono campi le scienze né i ritrovati, ma d’ordinario fossi ed argini, né la molta luce del vero può far bene a quella ch’è vaneggiatrice per natura, né di quelle cose onde s’arricchisce l’intelletto, s’arricchisce la fantasia già sterminatamente ricca per se stessa; ma la sua prima e somma ricchezza consiste nella libertà, ed il vero conosciuto ed il certo hanno per natura di togliere la libertà d’imaginare. E se il fatto stesse come vogliono i romantici, il confine dell’immaginativa sarebbe ristrettissimo ne’ fanciulli, e s’allargherebbe a proporzione che l’intelletto venisse acquistando; ma per lo contrario avviene ch’egli ne’ putti sia distesissimo, negli adulti mezzano, ne’ vecchi brevissimo. Laonde, come vediamo chiarissimamente in ciascuno di noi che il regno della fantasia da principio è smisurato, poi tanto si va ristringendo quanto guadagna quello dell’intelletto, e finalmente si riduce quasi a nulla, così né più né meno è accaduto nel mondo; e la fantasia che ne’ primi uomini andava liberamente vagando per immensi paesi, a poco a poco dilatandosi l’imperio dell’intelletto, vale a dire crescendo la pratica e il sapere, fugata e scacciata dalle sue terre antiche, e sempre incalzata e spinta, alla fine s’è veduta, come ora si vede, stipata e imprigionata e pressoch’immobile: e in questa sua condizione, o Lettori, la chiamano i romantici, la chiama il Cavaliere beatissima, e padrona di vastissimi regni. Non però va creduto, come pare che molti facciano, che col tempo sia scemata all’immaginazione la forza, e venga scemando tuttavia secondoché s’aumenta il dominio dell’intelletto: non la forza ma l’uso dell’immaginazione è scemato e scema; il quale e negli antichi né per giovanezza né per maturità né per vecchiezza non s’allentava mai più che un poco, e in noi, come piglia piede la signoria dell’intelletto, così va calando finattantoch’in ultimo quasi manca. Resta la forza ma oziosa, restano i campi per li quali soleva esercitarsi la foga della fantasia, ma chiusi dai ripari dell’intelletto: a volere che l’immaginazione faccia presentemente in noi quegli effetti che facea negli antichi, e fece un tempo in noi stessi, bisogna sottrarla dall’oppressione dell’intelletto, bisogna sferrarla e scarcerarla, bisogna rompere quei recinti: questo può fare il poeta, questo deve; non contenerla dentro le stesse angustie e fra le stesse catene e nella stessa schiavitù, secondo la portentosa dottrina romantica: e ogni volta che l’immaginativa è rimessa da un vero poeta nella condizione che ho detto, chiamo il mondo in testimonio dell’attività ch’ella palesa in questo medesimo tempo nelle medesime nostre menti. Molti e gravissimi, o Lettori, sono i mali che ha recati all’immaginativa il grande accrescimento della signoria dell’intelletto, dalla podestà dei quali la libera il poeta come e per quel tempo che può. Ma il pregiudizio non tocca il diletto solo, come porta la credenza comune: altre cose più sostanziali, benché questa è sostanzialissima, sono a parte del danno; e di ciò non è dubbio che non s’avveda e non s’attristi qualunque non dico poeta né oratore, ma filosofo veramente acuto e sublime, e diverso dai più de’ filosofi ch’oggi stanno in lode e in riverenza. Qui potrei dire che la ragione in pressoch’infinite cose è nemica formale della natura; che la ragione è nemica nelle cose umane di quasi ogni grandezza; che spessissimo dove la natura è grande, la ragione è piccola; che per lo più il grande nella stima degli uomini non è altra cosa che lo straordinario, ma lo straordinario è contro o fuori dell’ordine di cui la ragione è amica perpetua; che frequentissimamente vere ed eccessive piccolezze, perché sono straordinarie, si chiamano grandezze; che Alessandro e cento altri tali sono, secondo la natura e la fama, grandi, secondo la ragione, pazzi, e la pazzia, secondo la ragione, è sempre piccolezza; che appena può succedere che altri sia grande e faccia cose grandi, s’ei non è signoreggiato dalle illusioni, e che sia stimato grande, se le illusioni non hanno forza in altrui; che quanto crescerà l’imperio della ragione, tanto, snervate e diradate le illusioni, mancherà la grandezza degli uomini e dei pensieri e dei fatti; che il poeta sopra qualunque altro ha bisogno d’illusioni potentissime, e dev’essere in mille cose straordinario e in alcune quasi pazzo, ma questo è un tempo di ragione e di luce che si burla degl’inganni, e quando anche non volesse, a ogni modo li conoscerebbe, e conoscendoli gli sprezzerebbe; né concede facilmente altrui d’essere straordinario, ma per lo più con quel nome formidabile c’ha imparato dalla ragione chiama la stranezza furore o stoltizia: profonda miseria d’ogni arte bella e infinita calamità della poesia. Ma questo è un soggetto oltremodo vasto, e i fondamenti di quello che ho detto circa all’inimicizia della ragione e della natura, stanno nell’intima considerazione del composto universale delle cose: però non mi ci fermo, non volendo a tanta moltitudine di materie essenziali e necessarie del mio discorso, aggiungerne delle superflue, quantunque confacevoli e strettissimamente affini al soggetto. Faccio dunque tutto questo, non lodo i secoli antichi, non affermo che quella vita e quei pensieri e quegli uomini fossero migliori dei presenti, so che questi discorsi oggi s’hanno per vecchi e passati d’usanza, lascio ch’altri giudichi a sua voglia delle cose ch’io potrei dire; sieno sogni di fantasie disprezzatrici del presente e vaghe del lontano. Solamente dico che quella era natura e questa non è; che l’ufficio del poeta è imitar la natura, la quale non si cambia né incivilisce; che quando la natura combatte colla ragione, è forza che il poeta o lasci la ragione, o insieme colla natura, l’ufficio e il nome di poeta; che questi può ingannare, e per tanto deve coll’arte sua quasi trasportarci in quei primi tempi, e quella natura che ci è sparita dagli occhi, ricondurcela avanti, o più tosto svelarcela ancora presente e bella come in principio, e farcela vedere e sentire, e cagionarci quei diletti soprumani di cui pressoché tutto, salvo il desiderio, abbiamo perduto, onde sia presentemente l’ufficio suo, non solamente imitar la natura, ma anche manifestarla, non solamente dilettarci la fantasia, ma liberarcela dalle angustie, non solamente somministrare, ma sostituire; dico che chiamare la poesia dal primitivo al moderno, è lo stesso che sviarla dall’ufficio suo, volerla spogliare di quel sovrano diletto ch’è suo proprio, tirarla dalla natura all’incivilimento. Ma questo né più né meno vogliono i romantici, e conveniva bene che questo tempo, dopo averci snaturati indicibilmente tutti, proccurasse in fine di snaturare la poesia, ch’era l’ultimo quasi rifugio della natura, e d’impedire agli uomini ogni diletto ogni ricordanza della prima condizione, e negasse il nome di poeta a chiunque verseggiando non esprimesse i costumi moderni e lo spegnimento dei primitivi e la corruzione degli uomini. Perché in somma una delle principalissime differenze tra i poeti romantici e i nostri, nella quale si riducono e contengono infinite altre, consiste in questo: che i nostri cantano in genere più che possono la natura, e i romantici più che possono l’incivilimento, quelli le cose e le forme e le bellezze eterne e immutabili, e questi le transitorie e mutabili, quelli le opere di Dio, e questi le opere degli uomini. La qual differenza e riluce abbondantemente nei soggetti e nelle descrizioni e nelle immagini e in tutta la suppellettile e il modo e l’elocuzione poetica, e in tutto il complesso della poesia, ed è chiara, fra le altre cose, per portare un esempio pratico, nelle similitudini, le quali i nostri proccurano comunemente di pigliare dalle cose naturali, onde avviene che quelle presso loro sveglino ad ogni poco nella fantasia de’ lettori mille squisitissime immagini con meraviglioso diletto, ed è stato già notato che le similitudini de’ sommi poeti sono per lo più tratte dalle cose campestri; ma i romantici con altrettanto studio s’ingegnano di cavarle dalle cose cittadinesche, e dai costumi e dagli accidenti e dalle diverse condizioni della vita civile, e dalle arti e dai mestieri e dalle scienze e fino dalla metafisica, e fino (quando pare che la similitudine debba fare in certo modo più chiara la cosa assomigliata) arrivano a paragonare oggetti visibili a questo o a quell’arcano del cuore o della mente nostra; perché in sostanza è più chiaro del sole che i nostri cercano a tutto potere il primitivo, anche trattando cose moderne, e i romantici a tutto potere il moderno, anche trattando cose primitive o antiche. Laonde le similitudini di questi tali, e parimente di quasi tutti i poeti inglesi e tedeschi, nella gente che noi chiamiamo di buon gusto, cioè naturale, fanno per la più parte un senso come grossolano così spiacevolissimo, che mentre ella leggendo s’aspetta e desidera di scordarsi dell’incivilimento, a ogni tratto se lo vede ficcare avanti agli occhi; giacché presso quei poeti che ho detto, in cambio di montagne e foreste e campi e spighe e fiori ed erbe e fiumi e animali e venti e nuvole, troverete del continuo castelli e torri e cupole e logge e chiese e monasteri e appartamenti e drappi e cannocchiali e strumenti manifatture officine d’ogni sorta, e cose simili. Che ve ne pare o Lettori? non è un bel cambio questo? non vedete che sono stufi dei vezzi celesti della natura, e cercano vezzi terreni? non vedete che quei diletti che non trovano più o dicono di non trovare nelle opere di Dio e nelle bellezze universali e perpetue, e che chiamano da bisavoli, gli accattano dalle particolari e caduche, e dalla moda e dalle fatture degli uomini? e in somma non vedete manifestissimamente che noi schiavi noi pedanti noi matti amici dell’arte, siamo i veri e propri amici e partigiani della natura, e questi liberi questi savi questi amici della sola natura, sono assolutamente gli amici e i fautori e gl’imitatori dell’arte? E benché questo sarebbe il luogo di commuoversi e di gridare, Ecco il genere di poesia che vi manca, o Italiani: di queste cose siete detti poveri e ignoranti: queste ricchezze vi promette chi dice di volervi rigenerare e risuscitare: a questi studi siete esortati e incitati e stimolati; tuttavia mi conterrò, né sopporterò che il dolore, e la miseria dell’argomento mi distacchi dalla modestia che si conviene a questo discorso non altrimenti che a me. Diranno che quelle tali similitudini, e in genere la poesia romantica diletta soprammodo un infinito numero di persone. E dove bisognerebbe urlare, risponderò posatamente. Tre cose fra le altre cagionano questo diletto. Prima la corruzione dei gusti, la quale come regna in molti poeti, così parimente in molti lettori; e in genere, come le fantasie de’ poeti sono impastoiate, e avvezze e domestiche alla tirannia degl’intelletti, così anche le fantasie de’ lettori, e come quelle per la maggior parte non sanno più dilettare come debbono, così queste non sanno come una volta essere dilettate. E che perciò? Non parvero un tempo Seneca e Plinio più dilettevoli di Cicerone? Lucano più di Virgilio? E quelle incredibili stravaganze del seicento non piacquero in tutta quanta l’Italia? E uno de’ pochi sani, a chi gli avesse allegato il consenso degli uomini in favore di quella barbarie, non avrebbe risposto allora questo medesimo che rispondo io presentemente? e se fosse stato deriso, chi de’ due avrebbe avuto ragione? il deriso o i derisori? E primieramente, posto che il genio alla poesia romantica sia tanto divulgato e potente in Europa, quanto fu il genio alle pazzie del seicento in Italia, e soprattutto che qualunque è dilettato dai romantici non possa essere dilettato dai nostri, domando che cosa debbano fare quando il gusto sia magagnato, e cattiva e torta la via tenuta dalla moltitudine, quei poeti e quegli scrittori che conoscono tutto questo, e sono immuni dalla corruttela. Sto a vedere che per iscriver cose «da contemporanei, non da bisavoli», dovranno adattarsi alla depravazione e comporre piuttosto da barbari che da vecchi, e che nel seicento, come faceva benissimo l’Achillini quando esclamava,

 
Sudate, o fochi, a preparar metalli,

così operava pessimamente il Menzini, quando e fuggiva con ogni studio quello che il suo tempo cercava, e deridendo la goffaggine di quel gusto, scriveva fra l’altre cose:

 
Via cominciam co ’l fulmine tremendo
mandò in pezzi di flegra la montagna,
e ’l baratro a’ giganti aperse orrendo
giove, che spunta ancor con le calcagna.
dell’auree stelle i solidi adamanti
che son cerchi a cui ’l ciel fa di lavagna.
O che bel fraseggiare! o che galanti
pensieri! Aspetto ancor che sien le stelle
a forza d’armonia palei rotanti.

Sto a vedere che si portarono pedantescamente e da sciocchi il Gravina e il Maffei e gli altri che coll’opera e cogli scritti loro cacciarono finalmente quella peste dall’Italia, ed operarono che si tornasse a leggere e stampare Dante e il Petrarca i quali non erano né contemporanei né confacenti al gusto di quell’età. Crediamo noi che non ci avesse anche allora chi gridasse che quello era il gusto moderno, e quell’altro un gusto da passati, e beffasse la gente sana come abbietta e schiava e superstiziosa, e divota dell’anticaglie, e vaga della ruggine e della muffa, e ghiotta dello stantìo? Ma che valse? Non hanno giudicato i posteri fra l’un gusto e l’altro? e quella barbarie, e quel diluvio di versi e di scritti, e la memoria di quei poeti e di quegli scrittori non è perita? E queste opinioni presenti e questa foggia poetica e questo gusto non perirà? Perirà senza fallo, o Italiani, e i posteri si burleranno di voi se l’avrete accolto, e vi chiameranno barbari, e si maraviglieranno della stoltezza vostra come voi vi maravigliate della stoltezza di que’ del seicento, e la memoria di questo secolo sarà similmente vile e disprezzata. In secondo luogo, lasciando stare che la corruzione d’oggidì molto è lungi che sia tanto diffusa e radicata in Europa quanto ho supposto dinanzi, questo certamente dico, che quegli stessi che sono dilettati dai romantici, possono a maraviglia essere e sono frequentemente e vivamente dilettati dai nostri. Non è tanta la forza della depravazione che possa formalmente opprimere la natura; e se in qualcheduno è tale se c’è persona al mondo per cui sieno onninamente chiuse le fonti del diletto poetico vero e naturale e puro, indubitatamente, o Lettori, il numero di queste anime dannate è così scarso o più tosto impercettibile, che non è del poeta né anche del filosofo il tenerne conto. Ma il trionfo della verità e della natura sopra la corruttela delle opinioni e de’ gusti umani, s’è veduto anche nelle età più barbare; e uno stesso tempo esaltò il Marini e il Chiabrera, e nel seicento furono letti e celebrati il Menzini e il Filicaia. Ma che giova cercare esempi lontani, quando n’abbiamo in grandissima copia vicini e presenti? Forseché gli stessi romantici non sono intensamente dilettati da Omero e da Anacreonte e dagli altri nostri? e forseché non sanno e non vedono che di quei tali diletti, sì come le poesie loro non ne vengono appena spillando qualche rara goccia, così appresso gli antichi ne sgorga continuamente a rivi da larghissima vena? E sanno e vedono queste cose, e sono dilettati dagli antichi, e tuttavia negano che convenga al tempo nostro quella maniera di poetare che diletta ineffabilmente non mica i «bisavoli», ma loro stessi; ed essendo dilettati da Omero, non vogliono che nessun poeta possa dilettare presentemente in quella forma; credo, perch’avranno appaltato quei tali diletti agli antichi, in maniera che i moderni che altrimenti avrebbero potuto, per rispetto di questo non ne potranno più somministrare legittimamente. La seconda cagione del diletto recato dai romantici è la rozzezza e durezza di molti cuori e di molte fantasie che di rado e appena s’accorgono dei tasti delicatissimi della natura: ci vogliono urtoni e picchiate e spuntonate romantiche per iscuoterle e svegliarle: gente alla quale i diletti fini e purissimi sono come il rasoio alle selci; palati da sale e aceto, che par ch’abbiano fatto il callo ai cibi e liquori gentili. Questa durezza molti l’hanno da natura, molti dall’incivilimento, moltissimi da ambedue, corroborata potentemente o aiutata la disposizione ingenita, che forse avrebbe potuto cedere e illanguidire, dai costumi e dagli abiti e dalla snaturatezza cittadinesca. Nella fantasia di costoro fa molto più caso qualche lampada mezzo morta fra i colonnati d’un chieson gotico dipinta dal poeta, che non la luna su di un lago o in un bosco; più l’eco e il rimbombo di un appartamento vasto e solitario, che non il muggito de’ buoi per le valli; più qualche processione o spettacolo o festa o altra opera di città, che non messe o battitura o vendemmia o potagione o tagliatura di legne, o pastura di greggi o d’armenti, o cura d’api o di fratte o di fossi o di rivi o d’orti, o uccellagione o altra faccenda di agricoltori o di pastori o di cacciatori; più lo stile corrotto e cittadinesco e moderno, che non il semplice e primitivo. Non già che questi non sieno capaci di nessuna dolcezza naturale e fina, né che la natura di quando in quando non li solletichi e diletti senza ch’essi ci badino, ma nella poesia per un torpore d’immaginazione che a smuoverla ci bisognano gli argani, e che pena a strascinarsi lontano una spanna, vogliono oggetti presenti, che la fantasia non abbia da fare un passo per trovargli, e si contentano del piacere secco e grosso di quelle tali immagini, lasciando il sugoso e sostanzioso e squisito della natura e della poesia naturale. E oltreché l’imitazione dell’incivilimento e dell’arte a petto all’imitazione della natura è soprammodo grossolana per se medesima, e perciò meglio atta a fare impressione in quei cuori e in quelle immaginative, i romantici poi, cercando avidamente, e scegliendo con infinito amore le cose straordinarie e pellegrine, e le sterminatezze e gli eccessi anche dove imitano veramente la natura, menano a quelle fantasie manrovesci tali che la crosta ch’hanno dintorno, per dura che sia, non ci può reggere che non ne sbalzi via qualche pezzo, restandone scoperto il vivo, o più tosto, quantunque gli oggetti sieno lontani, tuttavia con quelle stranezze a marcia forza le spoltroniscono, e comeché sia ce le tirano: onde quelle immaginazioni che resistono eccellentemente ai sospiri d’un poeta tenero e infelice per una donna di Avignone, non può far che non cedano tanto o quanto ai ruggiti d’un assassino per una Turca; e chi non batte palpebra se il poeta proccura di mostrargli una riga di sangue sul petto d’un guerriero giovane e valoroso, è forza che dia segni di vita allo spettacolo d’un soldato ubbriaco, sfondato e sviscerato da una palla di cannone; e chi non piega punto il viso a un collicello verde e battuto dal sole, bisogna pure che di filo dia qualche occhiata a una gran roccia stagliata e nuda che sporge dal fianco d’una montagna, e pende orribilmente sopra un abisso cupo non so quante miglia. Di questa durezza ne partecipa più o meno grandissima folla di persone, giacché finalmente cuori e fantasie così molli che piglino a prima giunta le forme che il poeta vuol dare, e d’un senso così squisito che s’accorgano immantinente dei più leggeri tocchi, e in somma cuori e fantasie che seguano quasi spontaneamente il poeta doveché vada, e talvolta lo precedano, e sempre, come corde vivissime, risuonino spiccatamente alle menome percosse, non si trovano fuorché ne’ poeti (dico poeti per natura, facciano versi o non facciano): e per questo s’è dubitato dagli antichi, e si dubita dai moderni se la moltitudine sia giudice competente del poeta; del qual dubbio so che cosa pensino i romantici; ma pensino a modo loro; io di questo non parlo: solamente dico (tornando al proposito di quei duri e difficili parte alla natura parte alla poesia): scrivano per questi tali quei poeti che li somigliano, scrivano i tedeschi e gl’inglesi, non gl’italiani per Dio, fra i quali e non regna così largamente, e d’ordinario non è molto intima né gagliarda quella durezza. E certo quella facilità e cedevolezza di cuore e d’immaginativa, e anche quella mobilità e vispezza che può stare nelle fantasie volgari e che le assomiglia a quelle de’ poeti, e segnatamente quell’indole adattata ad accogliere e sentire la soavissima operazione della pura e delicata e santa natura che non è né leziosa né feroce, né Sibarita né Scita, né spiritosa né spiritata, e non s’imitò mai né colle smorfie né colle civetterie né colle arguzie sempiterne, né colle sfacciatezze né colle scapigliature né colle bestialità né cogli orrori sempiterni, e in breve i fondamenti del buon gusto, insieme con quelle faville di fuoco poetico che possono essere disseminate per le fantasie popolari, sono stati conceduti da Dio principalmente ai greci e agl’italiani; e per gl’italiani intendo anche i latini, padri nostri: delle altre nazioni, massime della tedesca e dell’inglese, io non dico niente; parlano i fatti. L’ultima e capitalissima delle tre cagioni che ho detto, è la singolarità, la quale sarebbe superfluo a dimostrare quanto smisuratamente possa nell’immaginazione: così non occorre dire che spessissime volte l’efficacia nelle scritture è tutt’uno colla novità o rarità; onde vedremo accadere frequentemente che quella cosa che un poeta o uno scrittore esprime, poniamo, con una parola nuova o per se stessa o per l’uso, e quindi efficace talmente che susciti a maraviglia ne’ Lettori l’immagine o il moto conveniente, venga significata nello scrivere o nel favellare ordinario con una voce molto più propria, ed anche per se stessa più vigorosa ed espressiva; e nondimeno quell’altra voce, solamente perch’è nuova, fa effetto più che non avrebbe potuto fare la parola corrente. E caso che quella o voce nuova o maniera di adoperarla andasse in usanza, allora quel cotal passo efficace e notabile diventerebbe ordinario, come senza fallo dev’essere accaduto a moltissimi luoghi di poeti e scrittori antichi, in ispecie de’ più studiati e imitati, e però massimamente di Omero. Ed è tanta la forza della singolarità nella poesia, che anche messa in opera come non doveva, a ogni modo si fa sentire gagliardamente alle stesse persone di buon gusto: saranno offese e stomacate da quelle immagini, ma converrà che le veggano mal grado loro. Venendo dunque al caso nostro, non è, si può dire, in Europa, non in America nessun lettore di poeti che non abbia le orecchie più o meno assuefatte alla maniera de’ greci e de’ latini, parte perch’è la maniera ordinaria appresso più nazioni sì de’ poeti e sì della ciurma de’ versificatori (la quale come in Italia vediamo ch’è infinita, così fuori non ci lasciamo dare ad intendere che sia scarsissima); e fino quei favellatori sguaiati che affettano il parlar poetico, pigliano comunemente da essa e parole e frasi e concetti: lascio certi predicatori fioriti, come li chiamano, i quali parimente accattano da essa la maggior parte de’ loro fiori; lascio tante infelici prose di qualsivoglia genere (e dicendo infelici ho detto quasi lo stesso che innumerabili) sparse della stessa infioratura; e brevemente la foggia poetica degli antichi è tanto usuale e nota, massimamente fra noi, che né pur le orecchie della plebe l’ignorano affatto; ma anche fra i tedeschi e gl’inglesi fra i quali la foggia romantica è più divulgata che altrove, non pare che perciò l’uso della nostra sia poco frequente; certo leggono e citano e lodano alla giornata molte e molte loro poesie d’altri tempi scritte al nostro modo: parte perché gli stessi poeti greci e latini sono conosciuti letti studiati usati maneggiati da tutto quanto il mondo, dai tedeschi e dagl’inglesi specialmente; questi trattiamo nella puerizia; da questi, si può dire, impariamo che cosa sieno versi e poesia; a questi esemplari conformiamo le prime idee che ci disegniamo in testa del verseggiare e del poetare; questi si stampano in tutte le forme, si dichiarano in tutti i modi, si trasportano in tutte le lingue in tutti i dialetti; di questi si citano si ricordano s’accennano tutto giorno, scrivendo parlando, da senno da burla, allusivamente espressamente, frasi versi sentenze immagini descrizioni favole; questi è vergogna non aver letti, non averne su per le dita fino alle menome finzioni, fino a un buon numero di concetti e di versi: in somma non c’è popolo incivilito appresso il quale i poeti greci e latini non facciano il forte della poesia; però non credo che ci sia popolo nella stima e nell’assuefazione di cui la maniera poetica de’ greci e de’ latini non sia la maniera ordinaria: la poesia romantica (lasciando stare ch’è creduta nuova, almeno in parte o quanto all’accozzamento di cose non nuove) è non ordinaria alle orecchie inglesi e tedesche, straordinaria alle francesi, ma molto più alle italiane, perché i francesi, benché pare che facciano cattivo viso alla nuova disciplina, è un pezzo che hanno accolto, non le stravaganze, ma tuttavia grandissima ed essenzialissima parte della poesia romantica. Ora stando così le cose, che maraviglia è che scuota meglio le immaginazioni una poesia nuova o poco familiare, che non un’altra a cui sono tanto assuefatte? che s’interni meglio una punta di stagno nuova e bene acuta, che non una d’acciaio vecchia e per lunga opera, ottusa? Stupisca o mi opponga l’efficacia della poesia romantica chi non conosce le fantasie degli uomini: io stupirei se succedesse altrimenti. Ma che dico le fantasie? Nessuna cosa umana conosce chi non sa che l’assuefazione fiacca le forze dei beni e dei mali, dei diletti e dei dolori spirituali e corporali, e quasi ci toglie il vedere e il sentire quello che vediamo e sentiamo continuamente, e che l’avvezzare è una delle tante forme onde il tempo va incessantemente cambiando e consumando.

Tutto noia si fa, l’amore e il sonno
e i dolci canti e i graziosi balli,

dice Omero; e in effetto, come ciascuno sa e predica, nessuna cosa è tanto bella né piacevole che a lungo andare non annoi: così la nostra maniera poetica, essendo pur cosa umana per quanto sia dilettevole e prossima al divino, può tediare senza fallo; del che qualunque la riprende, con molto più convenienza riprenderebbe la natura delle cose, cioè finalmente Iddio. Avviene non di rado che taluno stufo del dolce sia più dilettato dall’amaro: diremo per questo che l’amaro sia un buon sapore? e che sia meglio del dolce? e che il dolce sia cattivo? Ma non parliamo del fastidio, parliamo della forza e del dominio della nostra maniera poetica sulle immaginazioni e sui cuori, ch’è stenuato incredibilmente dall’uso; dico della maniera in genere, all’antichità e volgarità della quale non è maraviglia che prevalga la novità e singolarità di un’altra; che del resto la facoltà di trovare e di far cose nuove non mancherà fuorché insieme colla natura ai poeti che adopreranno quella stessa maniera antica, vale a dire agl’imitatori della natura. E quanto alla poesia romantica, facciamo ch’ella pigli piede, e si propaghi, e diventi, ch’è impossibile, così conosciuta e trita e volgare com’è la nostra presentemente: allora si vedrà che cosa ella possa per se medesima senza la novità: quando quel vocabolario di frasi e descrizioni e altre tali cose, che adesso perch’è nuovo o raro, sveglia tante immagini e tanti moti, fatto vecchio e comune, non isveglierà più niente, si vedrà quanta parte di quel gran diletto, di quella gran forza dei romantici venisse dalle proprietà, non sostanziali né intrinseche, ma estrinseche e casuali della poesia loro: né ci vuole troppo tempo né troppo uso perché questo succeda, né tanto quanto n’è bisognato proporzionatamente per la poesia nostra; che lo stagno non pena tanto a logorarsi quanto l’acciaio: nondimeno tolga Iddio ch’il mio detto sia confermato dall’esperienza, e che la poesia romantica sia rovinata dall’uso: e quando io credessi che questa mia scrittura dovesse giungere ai posteri, come so che non giungerà, vorrei più tosto che dubitassero se ciò che ho detto sia vero, di quello che mi lodassero come profeta, giacch’è meglio che molti dubitino, di quello che quasi tutti sieno corrotti, e che un secolo disputi, di quello che un mezzo secolo sia barbaro. Ora poiché la poesia, come tutte le cose di questo mondo, a forza d’uso si snerva, che rimedio ci troverà questo nostro tempo scopritore e ritrovatore? Stimo che acciocch’ella mantenga sempre quell’efficacia che proviene dalla novità, bisogni mutar foggia di quando in quando, e come adesso, in luogo dell’antica, buona per li pedanti, e disadatta al tempo nostro, abbiamo la romantica, così quando questa sarà tanto o quanto appassita, se ne debba mettere in sua vece un’altra, e dopo un ‘altra, e così di mano in mano. Che andiamo noi cercando bellezze eterne e immutabili? Qualunque cosa non si muta, qualunque dura sempre, non fa per la poesia: questa vuol cose caduche, cose che si rinnuovino, cose che passino: abbia anch’ella le sue mode, diventi leggera per esser sempre gagliarda; duri ciascuna foggia quanto può durare una moda: nella fama de’ poeti non fo variazione: duri a un di presso quanto dura presentemente: spero che si potranno stampare i giornaletti a posta, colle mostre di ciascheduna poesia che andrà venendo in usanza, come adesso si stampano quelli delle altre mode colle loro figurine. Queste paiono burle, o Lettori; pur voi sapete e vedete quanto poco sieno lontane dal fatto. Ma lasciamo queste fanciullaggini. La novità o singolarità che cagiona principalmente l’efficacia e il diletto della poesia romantica, non è già quella degli oggetti, ma quella dell’imitazione, la quale può essere singolare in due modi, e per le forme sue proprie, cioè se il poeta imiti in qualche maniera straordinaria, e per gli oggetti, cioè se il poeta imiti qualche oggetto o parte di oggetto che non soglia essere imitata nella poesia. E notate, o Lettori, che anche questa seconda singolarità è propria veramente dell’imitazione e non degli oggetti, stante ch’io non ho detto che questi debbano essere singolari, ma poco imitati. Anzi una delle cose che aiutano massimamente la poesia romantica oltre alle tre considerate finora, è che moltissimi degli oggetti ch’ella imita, sono per noi comuni e presenti, e ci stanno o ci passano tutto giorno avanti agli occhi; dico segnatamente le cose cittadinesche e le usanze del tempo nostro. Imperocché allora è grandissima l’efficacia della poesia, quando l’imitazione è rara, l’oggetto comune. E dico l’imitazione rara nell’uno dei modi specificati qui sopra, o in tutti e due. Quest’è una verità manifesta e notabilissima, che si dimostrerebbe facilmente e chiaramente se ci occorresse altra prova che l’esperienza di ciascheduno, e da cui si possono derivare molte e gravissime osservazioni intorno alla poesia, né pedantesche né romantiche, i quali due generi sono assai meno discordi, anzi assai meno dissimili che non pare. E da questo si comprende quanto sia scaduta la condizione della poesia da quello ch’era anticamente; dico di quella poesia ch’eseguisce l’ufficio suo, che imita la natura e non l’arte, e perché col tempo l’arte in moltissime cose ha prevaluto alla natura, perciò quanto alla maniera è primitiva e non moderna. Ora l’efficacia di questa poesia che sola è propriamente poesia, la doveano sentire gli antichi meglio di noi, come sappiamo che facevano, imperocché un tempo furono affatto ordinari in essa tutti e due quegl’inestimabili accidenti, la rarità dell’imitazione e la familiarità degli oggetti, le quali cose sono poi venute scemando l’una e l’altra. E quanto alla prima, ognuno vede che quando pochi poeti aveano cantato e cantavano, e le forme particolari e minute dell’imitazione doveano essere in grandissima parte rare anzi nuove, e di oggetti o parti d’oggetti non ancora o poche volte imitati ci doveva essere grande abbondanza: lascio che la poesia per se medesima essendo sempre rara, doveva anche sempre essere per questo verso più efficace. Tutto questo proporzionatamente va detto altresì di quei tempi meno remoti, i quali contuttoch’avessero buona quantità di poeti passati e presenti, nondimeno le orecchie non erano così piene di poesia come le nostre. Quanto alla seconda, è manifesto da sé che infinite cose naturali e primitive furono per gli antichi quando più quando meno, prima sommamente poi mezzanamente, sempre più comuni e familiari che non sono per noi, anzi molte furono comuni per loro, che sono quasi sparite dal mondo; non già che la natura la quale non solamente ne circonda e preme da ogni parte, ma sta dentro di noi vivente e gridante, possa mai divenire straordinaria per gli uomini; ma il mantello dell’incivilimento che nasconde tante parti della natura, non all’animo né al desiderio nostro, ma pure agli occhi, nascondeva assai meno agli antichi, molto meno ampio e molto più rado, e un tempo scarsissimo e trasparente; non odono più il poeta la plebe e gli agricoltori che una volta l’udiano o più tosto lo vedeano dipingere con tanto amore quegli oggetti e quelle faccende ch’essi aveano tutto il giorno avanti agli occhi e per le mani; sono periti i costumi primitivi o vicini ai primitivi; e non solamente questi, anche altri molto lontani da essi che tuttavia conservavano un certo bellissimo color naturale (dico quelli de’ greci ch’ebbero ai tempi, per esempio, di Pericle, e quelli de’ romani ch’ebbero ai tempi di Silla e di Cesare e d’Augusto, e gli altri tali), sono parimente vecchi e remoti: il che, se bene giova alla maraviglia e a molte illusioni, pregiudica all’evidenza, e all’efficacia ordinaria della poesia. Queste cose i romantici presso cui l’imitazione è così straordinaria e buona parte degli oggetti così comune, e che gridano tanto perch’il poeta imiti le cose moderne e presenti, le avranno senz’altro non solamente ponderate ma sviscerate, e fatte norma del loro poetare. Oh per l’appunto. In fatti cercano col candelino, come ho già detto di sopra, quelle più strane cose che si possono immaginare, o sieno semplicemente stravaganze singolarissime per natura loro; o sieno eccessi di qualsivoglia genere, segnatamente misfatti atrocissimi, cuori e menti d’inferno, stermini subbissi orrori diavolerie strabocchevoli, così altre invenzioni da spaccamonti; o sieno oggetti forestieri lontanissimi dagli occhi e dalla consuetudine dell’Europa o di quella tal nazione alla quale ciascuno di loro scrive, sconosciutissimi almeno ai sensi della più parte e sovente di quasi tutti i Lettori loro; o sieno costumi casi favole allegorie parimente forestiere e lontanissime, che per noi spesso e in qualunque modo, e massimamente nelle poesie loro, sono tanti geroglifici; o finalmente sieno cose quantunque vicine e nostrali, tuttavia rare e poco note o ignote alla moltitudine, come dire animali infermità officine lavorii strumenti, edifizi di costrutture singolari, che pochi hanno veduto o sentito, o che si vedono o sentono di rado, avvenimenti che poche volte succedono, e cose tali: in somma, chi non sapesse che vogliono anche il moderno e il comune anzi il triviale, parrebbe, come effettivamente pare a prima vista, che in vece del comune non cercassero negli oggetti altro che il singolare, non già specificamente quello rispettivo alla poesia (vale a dire che questa non soglia imitare quei tali oggetti), ma il singolare in genere, cioè tanto questo, quanto il rispettivo a’ paesi nostri e l’assoluto; e che non a bello studio ma per mero accidente s’abbattessero a imitare oggetti comuni, cioè perché questi sono anche tali da non poter essere stati molto imitati dalla poesia. E viene in parte da questo amore verso la singolarità che fanno incetta di cose vili e oscene e fetide e schifose, non istraordinarie in nessun modo per sé, né rispettivamente a’ paesi nostri, ma sì bene rispettivamente alla poesia, perché finora i poeti erano stati cigni e non corvi che volassero alle carogne; ma i romantici perché queste carogne sono intatte, e però possono far effetto, ci vanno sopra di tutta voglia, e ci ficcano e sguazzano il becco e l’ugne. E viene parimente da esso bell’amore, se non in tutto, almeno in parte, quella segnalatissima propensione al terribile o vogliamo all’orribile, per cui rigettando, come ho detto più sopra, quasi tutte le idee fanciullesche, nondimeno accolgono, anzi raccolgono con molta cura, insieme colle altre più mostruose, principalmente le terribili. Ma di questa propensione, perché ricercherebbe un lungo discorso, non voglio entrare a parlare: e venendo agli oggetti straordinari o assolutamente o relativamente a’ paesi nostri, vedete o Lettori, come la nuova scuola senta bene avanti in quella che chiamano «psicologia», della quale reputa e dice a tutte l’ore se stessa maestra e regina, e noi altri ignoranti. Imperocché, non vi par egli? è chiaro che l’immagine d’un oggetto a chi non l’ha visto mai, o solamente una o due volte in sua vita, o anche non ha pure un barlume del come è fatto, per qualche parola che gliene dica il poeta, gli deve alla bella prima sorgere nella fantasia spiccatissima e intera. È manifesto che chi non ha mai veduto né anche dipinta una Giraffa un vitello marino una Diomedea una palma una meschita o cose simili, o quando pure n’abbia veduto qualch’effigie, non ne serba nessuna o quasi nessuna traccia nella fantasia, letti quattro versi d’un romantico, crederà subito di vederle. Il poeta ordinariamente non dipinge né può dipingere tutta la figura, ma dà poche botte di pennello, e dipinge e più spesso accenna qualche parte, o sgrossa il contorno con entrovi alcuni tratti senza più: la fantasia, quando conosce l’oggetto, supplisce convenientemente le altre parti, o aggiunge i colori e le ombre e i lumi, e compie la figura. Così quando noi vediamo quei ritagli d’oggetti che i pittori figurano in sull’estremo de’ quadri, o fingendo che la vista del rimanente sia parata da altri oggetti, come nel vedere il davanti o il di dietro o il profilo, per esempio, di persona dipinta, c’immaginiamo tutta la persona, similmente allora, purché conosciamo quei tali oggetti, sapendo com’è fatta a un di presso quella parte che non vediamo, e supponendo che non manchi, ci formiamo bene e convenientemente nella fantasia la figura intiera. Così quando vediamo una faccia umana disegnata o incisa a chiariscuri, o anche semplicemente delineata, la fantasia ci aggiunge i colori naturali, e se bisogna la ombreggia e lumeggia. Ma se noi non conosciamo gli oggetti imitati dal poeta, e questi ce ne mostra solamente alcune parti o vero i contorni, non può fare che non succeda l’una di queste tre cose; o che la fantasia nostra vedendo chiaramente secondo la sua maniera di vedere le parti mostrate dal poeta, non ci aggiunga niente, e le dovrà essere molto dilettevole il vedere quelle teste o mezze teste, e quelle code, e quei pezzi di strumenti o di arnesi forestieri o mal noti, sospesi in aria così per miracolo: (ma questo non può succedere, perché noi nel vedere, per esempio, una testa dipinta, non ce la immaginiamo sola e staccata, se non quando il pittore non ha finto di nascondere il resto del corpo, ma l’ha dintornata e terminata in maniera da farla stare isolata e da sé, giacché allora non possiamo supporre che quello che non vediamo, contuttociò non manchi, quantunque non apparisca, ma conosciamo intieramente che non c’è altro fuori di quello che vediamo); o che aggiunga il rimanente a capriccio e a ventura, facendo tanti ippogrifi e tanti ircocervi e tanti innesti chimerici con quel diletto che può scaturire dal mostruoso; o che non veda né aggiunga nulla, o se pur vede, aggiunga oscuramente e confusamente, come se un pittore ci mostrasse soltanto le zampe o le corna di una bestia sconosciuta, o ce ne sbozzasse il dintorno; e questo appunto è quello che avviene. E posto pure ch’il poeta disegni e colorisca, per minuto tutta quanta la figura, il che non può quasi mai; e quelle stesse parti che può dipingere, come non dev’esser difficilissimo che le rappresenti evidentemente alle fantasie quando l’oggetto non è conosciuto, e quasi impossibile quando questo ha poco che fare con quelli che conosciamo, o vero ha certe qualità o parti che la fantasia non si può giovar molto degli oggetti che conosce per congetturarle a dovere; mentre vediamo quanto sia raro che altri ci svegli la vera idea di questi tali oggetti, favellando e gestendo, e figurando cogli atti e coi moti quello che descrive colle parole, e aiutando la favella il meglio che può con cose visibili, e mentre non ce la svegliano gli scrittori più accurati con molte pagine di prosa, se finalmente non ci pongono quegli oggetti sotto gli occhi, effigiati in qualche maniera? Ed ecco l’efficacia di questa singolarità, ecco la grande scienza «psicologica» della nuova scuola, che sapendo come ha molta forza nella poesia la novità o la rarità, non mette differenza tra quella ch’è propria dell’imitazione e quella ch’è propria degli oggetti i quali per l’opposto vorrebbero esser comuni. E non parlo qui del meraviglioso, il quale so che richiede cose straordinarie e queste non dico di qual fatta debbano essere; parlo in genere di tutta la poesia, parlo delle similitudini dei traslati delle immagini usuali, del linguaggio poetico del magazzino de’ romantici, il quale non so di che altri oggetti propri sia corredato, fuorché parte comuni ma fin qui o rigettati o poco amati dalla poesia, parte singolari e stravaganti. Anche noi veramente vogliamo, o più tosto la condizione de’ tempi vuole ch’il poeta imiti molte cose presentemente non comuni, dico le primitive; ma queste non possono essere strane se non a quello a cui sia strana la natura; ne abbiamo tutti come i germi in noi stessi, e le idee se non chiare almeno confuse, e la inclinazione verso loro naturale e concreata; siamo stati tutti fanciulli, e partecipi formalmente delle cose primitive, e sudditi alla natura primitiva; non è finita nel mondo la vita campagnuola, né finirà, perché insieme finirebbe la vita cittadinesca, ma è diffusa necessariamente per tutta la terra e poco meno che avanti agli occhi di tutti gl’inciviliti, e conserva una gran parte di quei costumi che sono spariti dalle città; appena si può dire che le cose primitive non sieno comuni: contuttociò non neghiamo che la condizione de’ poeti nostri non sia per rispetto a questo inferiore a quella degli antichi, riputiamo e chiamiamo svantaggio e disastro della poesia, che tanti soggetti propri della imitazione poetica sieno diventati meno comuni, affermiamo che il poeta bisogna ch’abbia gran riguardo alle cose presenti, che ha mestieri adesso di molto più arte che non un tempo. E i romantici che condannano come lontane quelle cose che o lontane o no che sieno alla realtà, saranno sempre vicine e all’immaginativa e al desiderio nostro, essi medesimi non forzati dalla necessità, non dall’indole propria della poesia, non dalla condizione de’ tempi, né anche per un capriccio passeggero, ma per proposito certo e costante s’affaticano e s’ingegnano a tutto potere di trovar cose lontanissime o singolarissime (che, facciamo conto, è tutt’uno, se non peggio); e mentre non consentono che si pigli materia di poesia dall’antichità nostra, la pigliano dall’Asia e dall’Africa e dall’America; e mentre non vogliono che si canti ai bisavoli, cantano agli antipodi (lascio che di costoro non cantano solo il presente ma eziandio l’antichissimo): e poi si gloriano che l’Asia e l’Affrica e l’America e tutto il mondo è tributario de’ versi loro; e poi riprendono e scherniscono i poeti nostri dicendo che scrivono a pochi, mentreché tanta parte de’ loro versi per fare l’effetto suo, vorrebbe un uomo che, fra le altre cose, avesse veduto tutto il mondo, e non basterebbe, giacché né meno a costui potrebbero esser comuni e familiari gli oggetti di tutto il mondo. In somma contraddizioni e poi contraddizioni, in somma errori, assurdi, stravaganze, fanciullaggini, in somma nessuna candidezza nessuna realtà, in somma un ammasso un caos di sofisticherie di frenesie di mostruosità di ridicoli, è il dono, o mia patria, che t’offeriscono non dico i nemici non gli stranieri, ma i figli. Taluno dirà: non affermavi tu poco sopra che la poesia romantica è molto efficace? Efficace ho chiamata quella parte della poesia romantica la quale imita oggetti comuni o non singolari; efficace in tutti, anche nelle persone di buon gusto, quantunque non altrimenti che il puzzo in chiunque ha odorato, e massime in chi l’ha buono. Efficace ho detto altresì quella parte che imita oggetti singolari, ma efficace nelle persone di fantasia dura e torpida, per le quali ci vogliono cose o presentissime o lontanissime; non già che le immagini di queste seconde, figurate dal poeta, le vedano costoro meglio degli altri; anzi le vedono oscuramente e senza paragone più nebbiose e più slavate che altri non vede le immagini di cose né presentissime né troppo lontane, le quali essi non arrivano a vedere, perché né s’adattano alla inerzia della fantasia loro, rappresentando cose fra le quali ei s’aggirino continuamente, né la vincono col fracasso e coll’urto della novità della stravaganza della maraviglia. Questi tali dunque fra il poco e il niente, scelgono senza nessuna dubitazione il poco, attoniti che la poesia li faccia pur finalmente vedere qualche cosa; e parendo loro un gran che, quello che ad altri pare una gran miseria, preferiscono di gran lunga i romantici che li fanno veder poco e male, ai nostri che fanno veder molto e bene altre fantasie ma non le loro. In questo modo le stravaganze della poesia romantica sono, come ho detto, efficaci in costoro, non assolutamente, ma rispetto alla poesia nostra. La qual efficacia chi non conosce quanto agevolmente e con quanto poco d’ingegno e di costo si provveda? Chi non sa che si coglie più facilmente nel vero imitando lo straordinario che l’ordinario? che in tutte le arti belle regolarmente è molto più facile a imitare le cose eccessive che le mezzane? Lascio quando non s’imita ma s’inventa; lascio che a qualunque o pittore o scultore o altro tale artefice è molto più agevole il figurare di suo capo un demonio orribilissimo, che non il ritrarre una persona non deforme; lascio che se, posto un oggetto da imitare, è più facile il contraffarlo migliore ch’ei non è, di quello che tale qual è, molto più sarà facile il contraffarlo peggiore. Mi vergogno, o Lettori miei, di scriver cose che al presente, non dico voi, ma le sanno per poco i fanciulli, il che non fo solamente adesso, ma ho fatto già più volte in questo discorso, e per avventura farò; se non che penso come la colpa non è tanto mia che ricordo cose note, quanto di quelli che mostrano d’ignorarle. Certo, o Italiani, che se quella gente dura che dicevamo, vi paresse e molta fra voi, e degna della poesia, se credeste che il poeta dovesse cantare a quelli che la natura non ha fatti per ascoltarlo, se non giudicaste che in vece che la poesia debba infracidire per amor loro, questi tali debbano lasciarla da canto, e badare a cose alle quali sieno meglio adattati, giacché si vive in questo mondo anche senza poesia, brevemente se per qualunque o ragione o ghiribizzo vi piacesse di tener dietro ai poeti inglesi e tedeschi, vi mancherebbe la lena, e non sareste da tanto da dipingere in luoghi deserti e nascosti e favorevoli all’assassinio, quarti di masnadieri, fumanti grondanti marciosi, pendenti da alberi insanguinati, braccia gambe con parti di schiena e di ventre orlate di strambelli; da mostrare uomini scelleratissimi, disperati urlanti, che si sbalzassero giù da rupi alte quant’è un’occhiata, notare lo schiacciamento del cranio e lo sprazzo delle cervella e lo spaccamento e lo sfracellamento di tutto il corpo, e le interiora tutte nudate e sparpagliate, e ogni cosa affogata in un pantano di sangue nero e gorgogliante; da introdurre di notte in camere buie, rischiarate a poco a poco da un barlume pallido e sommesso, scheletri o cadaveri che fiottando e scrollando catene, s’incurvassero sul letto e accostassero la faccia gialla e sudata alla faccia di persona viva, giacente senza voce senza respiro, assiderata dallo spavento. E non più tosto il far cose di questa lega sarebbe un giuoco per voi, e se ricusate di poetare e di applaudire a chi poeta in questa forma, se non mettete la gloria vostra, compatriotti dei primi poeti del mondo rinato agli studi, nel seguitare i poeti inglesi e tedeschi, se vi stomacate, se v’irritate con me, se appena vi tenete di stracciare questa carta dove ho solamente accennato quello che a voi converrebbe dipingere, viene che non credete degno della poesia quello ch’è indegno della scrittura pedestre e del ragionamento familiare; viene che se non siete effemminati e superstiziosi nel conservare la dignità e la venustà degli scritti vostri come una nazione vostra vicina, che si spaventa della proprietà delle parole e delle cose, e fugge l’efficacia, e condanna ogni bell’ardimento, e snerva e snatura poco meno che tutta la poesia e tutto lo scrivere, né anche perciò siete vaghi dell’abbietto né del vergognoso né dell’infame, né di sozzurre né di marciumi né d’orrori né di mostri, né riputate che l’oggetto della poesia che molti dicono essere il bello, sia principalmente il brutto; viene che siete figli de’ romani, allievi de’ greci e non de’ barbari, che siete italiani e non tedeschi né inglesi. Confesso il vero, che, quanto più riguardo agl’insegnamenti della nuova scuola e ai frutti che danno, tanto più mi par dispregevole quello che m’era paruto notabile, tanto meno temo che questa peste possa prender piede in Italia, tanto più voglia mi viene di ridere, come s’è costumato finora, in cambio di discorrere, tanto più conosco e lodo il senno di quei gravissimi letterati che per quanto il silenzio loro dovesse dare alterigia e baldanza di vittoriosi ai nuovi settari, non hanno stimato che questi potessero guadagnare contro di loro altra vittoria che di condurgli a metter mano alle armi. Ma per recare in poco quello che fin qui s’è disputato largamente, abbiamo veduto come s’ingannino coloro i quali negando che le illusioni poetiche antiche possano stare colla scienza presente, non pare che avvertano che il poeta già da tempi remotissimi non inganna l’intelletto, ma solamente la immaginazione degli uomini; la quale potendo egli anche oggidì, mantenuta l’osservanza del verisimile e gli altri dovuti rispetti, ingannare nel modo che vuole, dee scegliere le illusioni meglio conducenti al diletto derivato dalla imitazione della natura, ch’è il fine della poesia; di maniera che non essendo la natura cambiata da quella ch’era anticamente, anzi non potendo variare, seguita che la poesia la quale è imitatrice della natura, sia parimente invariabile, e non si possa la poesia nostra ne’ suoi caratteri principali differenziare dall’antica, atteso eziandio sommamente che la natura, come non è variata, così né anche ha perduto quella immensa e divina facoltà di dilettare chiunque la contempli da spettatore naturale, cioè primitivo, nel quale stato ci ritorna il poeta artefice d’illusioni; e che in questo medesimo stato nostro è manifestissimo e potentissimo in noi il desiderio di questi diletti e la inclinazione alle cose primitive: né la poesia ci può recare altri diletti così veri né puri né sodi né grandi, e se qualche diletto è partorito anche dalla poesia romantica, s’è veduto da quali cagioni proceda singolarmente, e come questi diletti sieno miseri e vani appresso quelli che recano o possono recare i poeti nostri, e come impropri della poesia. Ora da tutto questo e dalle altre cose che si son dette, agevolmente si comprende che la poesia dovette essere agli antichi oltremisura più facile e spontanea che non può essere presentemente a nessuno, e che a’ tempi nostri per imitare poetando la natura vergine e primitiva, e parlare il linguaggio della natura (lo dirò con dolore della condizione nostra, con disprezzo delle risa dei romantici) è pressoché necessario lo studio lungo e profondo de’ poeti antichi. Imperocché non basta ora al poeta che sappia imitar la natura; bisogna che la sappia trovare, non solamente aguzzando gli occhi per iscorgere quello che mentre abbiamo tuttora presente, non sogliamo vedere, impediti dall’uso, la quale è stata sempre necessarissima opera del poeta, ma rimovendo gli oggetti che la occultano, e scoprendola, e diseppellendo e spostando e nettando dalla mota dell’incivilimento e della corruzione umana quei celesti esemplari che si assume di ritrarre. A noi l’immaginazione è liberata dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali, rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo, rifatta capace dei diletti soprumani della natura, dal poeta; al poeta da chi sarà? o da che cosa? Dalla natura? Certamente, in grosso, ma non a parte a parte, né da principio; vale a dire appena mi si lascia credere che in questi tempi altri possa cogliere il linguaggio della natura, e diventare vero poeta senza il sussidio di coloro che vedendo tutto il dì la natura scopertamente e udendola parlare, non ebbero per esser poeti, bisogno di sussidio. Ma noi cogli orecchi così pieni d’altre favelle, adombrate inviluppate nascoste oppresse soffocate tante parti della natura, spettatori e partecipi di costumi lontanissimi o contrari ai naturali, in mezzo a tanta snaturatezza e così radicata non solamente in altri ma in noi medesimi, vedendo sentendo parlando operando tutto giorno cose non naturali, come, se non mediante l’uso e la familiarità degli antichi, ripiglieremo per rispetto alla poesia la maniera naturale di favellare, rivedremo quelle parti della natura che a noi sono nascoste, agli antichi non furono, ci svezzeremo di tante consuetudini, ci scorderemo di tante cose, ne impareremo o ci ricorderemo o ci riavvezzeremo a tante altre, e in somma nel mondo incivilito vedremo e abiteremo e conosceremo intimamente il mondo primitivo, e nel mondo snaturato la natura? E in tanta offuscazione delle cose naturali, quale sarà se non saranno gli antichi, specialmente alle parti minute della poesia, la pietra paragone che approvi quello ch’è secondo la natura, e accusi quello che non è? La stessa natura? Ma come? quando dubiteremo appunto di questo, se avremo saputo vederla e intenderla bene? L’indole e l’ingegno? Non nego che ci possano essere un’indole e un ingegno tanto espressamente fatti per le arti belle, tanto felici tanto singolari tanto divini, che volgendosi spontaneamente alla natura come l’ago alla stella, non sieno impediti di scoprirla dove e come ch’ella si trovi, e di vederla e sentirla e goderla e seguitarla e considerarla e conoscerla, né da incivilimento né da corruttela né da forza né da ostacolo di nessuna sorta; e sappiano per se medesimi distinguere e sceverare accuratamente le qualità e gli effetti veri della natura da tante altre qualità ed effetti che al presente o sono collegati e misti con quelli in guisa che a mala pena se ne discernono, o per altre cagioni paiono quasi e senza quasi naturali; e in somma arrivino senza l’aiuto degli antichi a imitar la natura come gli antichi facevano. Non nego che questo sia possibile, nego che sia provabile, dico che l’aiuto degli antichi è tanto grande tanto utile tanto quasi necessario, che appena ci sarà chi ne possa far senza, nessuno dovrà presumere di potere. Non mancherà mai l’amore degli uomini alla natura, non il desiderio delle cose primitive, non cuori e fantasie pronte a secondare gl’impulsi del vero poeta, ma la facoltà d’imitar la natura, e scuotere e concitare negli uomini questo amore, e pascere questo desiderio, e muovere ne’ cuori e nelle fantasie diletti sostanziosi e celesti, languirà ne’ poeti, come già langue da molto tempo. E qui non voglio compiangere l’età nostra, né dire come sia svantaggioso, quello che tuttavia, così per la ragione che ho mentovata, come per altre molte, è, almeno generalmente parlando, necessarissimo, né pronosticare dei tempi che verranno quello che l’esperienza dei passati e del presente dimostra pur troppo chiaro, che qualunque sarà poeta eccellente somiglierà Virgilio e il Tasso, non dico in ispecie ma in genere; un Omero un Anacreonte un Pindaro un Dante un Petrarca un Ariosto appena è credibile che rinasca. Ma omettendo di buona voglia questi presagi dolorosi, e pregando che sieno falsi, non voglio lasciar di ammonire i romantici, che oramai si riposino da quelle vane decrepite inette declamazioni contro l’uso delle favole greche. Non ricordo qui le favole orientali e settentrionali, amori e delizie loro; non metto in campo le disonestà le scelleraggini che sono, non pure incidenti, ma soggetti principali delle poesie di quelli che ci rinfacciano tutto giorno, che abbrividiscono che impallidiscono in ridursi a memoria i delitti favoleggiati dagli antichi. Già le contraddizioni nelle cose della nuova setta non vanno più notate. Sia concesso alle opinioni ai detti ai fatti dei romantici, poeti e filosofi sommi, quello che non si sopporta negli uomicciattoli; che sieno incoerenti e contraddittori. Sappiano che quando noi disputiamo che la poesia moderna non si dee né si può diversificare dall’antica, non difendiamo l’abuso né l’uso delle favole de’ Gentili. Vogliamo che sieno essenzialmente comuni alla poesia greca e latina colla presente e con quella di tutti i tempi, le cose naturali necessarie universali perpetue, non le passeggere, non le invenzioni arbitrarie degli uomini, non le credenze non i costumi particolari di questo o di quel popolo, non i caratteri non le forme speciali di questo o di quel poeta: le favole greche sono ritrovamenti arbitrari, per la più parte bellissime dolcissime squisitissime, fabbricate sulla natura, come forse accennerò nel progresso, ma fabbricate da altri non da noi, fabbricate, come ho detto, sulla natura, non naturali; perciò non sono comuni agli antichi con noi, ma proprie loro: non dobbiamo usurpare le immaginazioni altrui, quando o non le facciamo nostre in qualche maniera, o non ce ne serviamo parcamente come di cose poeticissime, notissime a tutti, usitatissime appresso quei poeti che tutto il mondo legge ed esalta, fonti di ricchezza alla elocuzione poetica, utilissime alla speditezza e alla nobiltà del dire, in generale, alla lontana, come di fondamenti alle invenzioni nostre, adoperando la religione degli antichi, come opportuna alle finzioni, amica de’ sensi, e più naturale che ragionevole non altrimenti che la poesia. Quindi, non solamente l’abuso delle favole greche, non solamente le oscenità e le brutture, ma l’uso o smoderato o sol tanto non parco, si sconsiglia e biasima e rigetta da qualunque de’ nostri ha senno e sapere; perché noi non vogliamo che il poeta imiti altri poeti, ma la natura, né che vada accettando e cucendo insieme ritagli di roba altrui; non vogliamo che il poeta non sia poeta; vogliamo che pensi e immagini e trovi, vogliamo ch’avvampi, ch’abbia mente divina, che abbia impeto e forza e grandezza di affetti e di pensieri, vogliamo che i poeti dell’età presente e delle passate e avvenire sieno simili quanto è forza che sieno gl’imitatori di una sola e stessa natura, ma diversi quanto conviene agl’imitatori di una natura infinitamente varia e doviziosa. L’osservanza cieca e servile delle regole e dei precetti, l’imitazione esangue e sofistica, in somma la schiavitù e l’ignavia del poeta, sono queste le cose che noi vogliamo? sono queste le cose che si vedono e s’ammirano in Dante nel Petrarca nell’Ariosto nel Tasso? dei quali, e massimamente dei tre primi, è stato detto mille volte che sono e similissimi agli antichi, e diversissimi. Che secolo è questo? a che si grida e si strepita? dove sono i nemici? chi loda più la Sofonisba del Trissino perch’è modellata secondo le regole di Aristotele, e l’esempio dei tragici greci? chi legge l’Avarchide dell’Alamanni perch’è un’immagine fedelissima dell’Iliade? Ma l’avere queste cose in dispregio, e il ricercare quelle che ho dette più sopra, non ce l’hanno insegnato i romantici. Non hanno insegnato i romantici al Parini che si aprisse una nuova strada, al Metastasio e all’Alfieri che non somigliassero il Rucellai lo Speroni il Giraldi il Gravina, al Monti che non imitasse Dante ma l’emulasse. Sappiano i nuovi filosofi che oramai lo scagliarsi contro i pedanti è verissima e formale pedanteria, che o non essendoci più pedanti, o se ci sono non potendo più nulla, e il tartassargli essendo vano, perché ad essi non giova, agli altri non occorre, o le voci o le risa dei savi si volgeranno contro i successori de’ pedanti che sono i romantici, non per giovare a loro, che anche questo è impossibile, ma per rispetto degli altri, quantunque il bisogno sia poco; sappiano che la pedanteria non ha per natura d’essere quanto agli oggetti del suo culto o greca o latina o italiana soltanto, ma può essere, come in fatti è presentemente, inglese tedesca europea mondiale; ch’è del pari pedantesco l’abborrire ciecamente uno scrittore, e l’amarlo ciecamente; ch’è molto più pazzo e intollerabile il dispregiare uno scrittore insigne e venerato da tutto il mondo, che non l’adorarlo; si vergognino d’esser pronti a lodare chiunque citi in materia di poesia lo Schlegel il Lessing la Staël, e di schernire chi cita Aristotele Orazio Quintiliano; avvertano che se altri ride e se essi ridono di «amplificazione » di «prosopopea» di «metonimia» di «protasi» di «epitasi» e cose tali, non si sa perché non s’abbia da ridere di «analogia» di ... e d’idee che «armonizzano» insieme, e d’altre «inarmoniche», e d’altre che «simpatizzano »; e chi vuole andar dietro a contare i vocaboli o i modi o le cose pedantesche e ridicole de’ libri romantici? i quali non va messo in dubbio che non sia più ristretto assunto il confutare che il deridere. Ma lasciamo queste inezie. Quanto debba o possa concedere il poeta alle credenze e ai costumi presenti, è un soggetto che ha mestieri d’esser trattato da altri filosofi, o chiarito da altri poeti che non sono i romantici e non sono io. Però non ci pongo bocca. E queste pochissime cose sieno dette intorno allo studio degli antichi; la qual materia vastissima e rilevantissima non nego, anzi confesso e affermo spontaneamente che, non a caso, ma a bello studio, perché questo discorso non si trasmuti in un libro, lascio poco meno che intatta. Ma i romantici e fra i romantici il Cavaliere s’appoggiano forte a quello che il Cavaliere chiama «patetico», distinguendolo con ragione dal tristo e lugubre o sia dal malinconico proprio, quantunque esso patetico abbia ordinariamente o sempre un colore di malinconia; e volendo che consista «nel profondo e nella vastità del sentimento », e descrivendolo in guisa che non ci vuol molto a comprendere com’egli in sostanza col nome di «patetico» vuol dinotare quello che comunemente con voce moderna se guardiamo al tempo, se all’uso, antichissima, (tanto s’è adoperata e s’adopera ai tempi nostri), si chiama «sentimentale». Ora parendo al Cavaliere che in quella parte della poesia che costumiamo di significare con questa voce, regnino assolutamente i romantici, o perché sia propria loro, o perché in essa avanzino di gran lunga gli altri poeti, perciò non dubita di anteporre i poeti romantici ai nostri e segnatamente agli antichi. E che quella che ho detto, sia veramente una parte e non tutta né quasi tutta la poesia, come pensano il Breme e i romantici con opinione maravigliosa in qualunque ha intelletto, incredibile in chi si chiama filosofo, lo dirò poi. Non ignoro dunque che in certo modo qui sta il nerbo delle forze nemiche; so che per giudizio d’alcuni, in questo differiscono capitalmente i poeti romantici e i nostri, che quelli mirano al cuore e questi alla fantasia; vedo la vastità e la scabrosità e se volete l’importanza della materia: tuttavia tra perché quanto il peso è maggiore, tanto meno io mi ci debbo stimare adatto, e perché credo che questo nerbo venga a essere sgagliardito notabilmente dalle cose dette di sopra, e perché finora sono stato più diffuso che non era mio proponimento, non farò altro che sfiorare il soggetto, ed essendo stato nelle cose precedenti più lungo, in questa sarò più breve ch’io non voleva. Primieramente, dicendo il Cavaliere che «il patetico ha questo di proprio e di distintivo, che da una circostanza fisica qualunque egli prende occasione di più e più indentrarsi in tutta la profondità di quel sentimento morale, che armonizza meglio coll’originaria sensazione »; e del resto essendo certo che il poeta è imitatore della natura, domando se le cose naturali sveglino in noi questi moti o altrimenti che li vogliamo chiamare. Diranno che infiniti e vivissimi. Ridomando se per forza loro, aiutata solamente dalle disposizioni e dalle qualità dell’animo di ciascheduno; e se anticamente quando per iscarsezza di quest’aiuto ch’io dico, non soleano fare gli effetti di cui parliamo, contuttociò fossero né più né meno tali quali sono, e avessero quella stessa forza che hanno presentemente. Risponderanno che sì. Ora che cosa faceano i poeti antichi? Imitavano la natura, e l’imitavano in modo ch’ella non pare già imitata ma trasportata nei versi loro, in modo che nessuno o quasi nessun altro poeta ha saputo poi ritrarla così al vivo, in modo che noi nel leggerli vediamo e sentiamo le cose che hanno imitate, in somma in quel modo che è conosciuto e ammirato e celebrato in tutta la terra. Quegli effetti dunque che fanno negli animi nostri le cose della natura quando sono reali, perché non li dovranno fare quando sono imitate? massimamente nel modo che ho detto. Anzi è manifesto che le cose ordinarissimamente, e in ispecie quando sono comuni, fanno al pensiero e alla fantasia nostra molto più forza imitate che reali, perché l’attenzione così al tutto come singolarmente alle parti della cosa, la quale non è più che tanta, e spesso è poca o nessuna quando questa si vede o si sente in maniera ordinaria, voglio dire nella realtà, è molta e gagliarda quando la cosa si vede o si sente in maniera straordinaria e maravigliosa, come nella imitazione. Aggiungete che lasciando stare quanta sia l’efficacia delle cose, l’uomo nel leggere i poeti è meglio disposto che non suole a sentirla qualunque ella è. Ora quella natura ch’essendo tale al presente qual era al tempo di Omero, fa in noi per forza sua quelle impressioni sentimentali che vediamo e proviamo, trasportata nei versi d’Omero e quindi aiutata dalla imitazione e da quella imitazione che non ha uguale, non ne farà? E nomino Omero più tosto che verun altro, parte perch’egli è quasi un’altra natura, tanto per la qualità come per la copia e la varietà delle cose, parte perché s’ha per l’uno de’ poeti meno sentimentali che si leggano oggidì. Una notte serena e chiara e silenziosa, illuminata dalla luna, non è uno spettacolo sentimentale? Senza fallo. Ora leggete questa similitudine di Omero:

Sì come quando graziosi in cielo
rifulgon gli astri intorno della luna,
e l’aere è senza vento, e si discopre
ogni cima de’ monti ed ogni selva
ed ogni torre; allor che su nell’alto
tutto quanto l’immenso etra si schiude,
e vedesi ogni stella, e ne gioisce
il pastor dentro all’alma.

Un veleggiamento notturno e tranquillo non lontano dalle rive, non è oltremodo sentimentale? Chi ne dubita? Ora considerate o Lettori, questi versi di Virgilio:

Adspirant aurae in noctem, nec candida cursus
luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus.
Proxima Circaeae raduntur litora terrae,
dives inaccessos ubi Solis filia lucos
adsiduo resonat cantu, tectisque superbis
urit odoratam nocturna in lumina cedrum,
arguto tenues percurrens pectine telas.
Hinc exaudiri gemitus iraeque leonum
vincla recusantum et sera sub nocte rudentum.

Che ve ne pare? Quelle cose che sono sentimentali in natura, non sono parimente e forse da vantaggio in queste imitazioni? Come dunque diranno che i poeti antichi non sono sentimentali, quando e la natura è sentimentale, e questi imitano e per poco non contraffanno la natura? Ma io so bene che questo per li romantici è un nulla: vogliono che il poeta a bella posta scelga, inventi, modelli, combini, disponga, per fare impressioni sentimentali, che ne’ suoi poemi non sol tanto le cose ma le maniere sieno sentimentali, che prepari e conformi gli animi de’ lettori espressamente ai moti sentimentali, che ce li svegli pensatamente e di sua mano, che in somma e il poeta sia sentimentale saputamente e volutamente, e non quasi per ventura come d’ordinario gli antichi, e ne’ poemi il colore sentimentale sia risoluto ed evidente e profondo. Ora io non dirò di questo sentimentale o patetico quelle cose che tutti sanno; che poco o niente se ne può ritrovare non solo appresso i barbari, ma appresso i nostri campagnuoli; ch’è tenuta per la più sensitiva del mondo la nazione francese, la quale oggidì è parimente la più corrotta del mondo e la più lontana dalla natura; che una sterminata quantità di persone tanto dell’un sesso come dell’altro, non è sensitiva se non perc’ha letto o legge romanzi e altre fole di questa lega, o viene udendo alla giornata sospiri e ciarle sentimentali; di maniera che la sensibilità in costoro non è altro che un mescuglio o una filza di rimembranze di storie di novelle di massime di sentenze di detti di frasi lette o sentite; e mancata o illanguidita la ricordanza, manca la sensibilità, o ne resta solamente qualche rimasuglio, in quanto altri di quando in quando è mosso da questo o da quell’oggetto o accidentuzzo a rammemorarsi delle cose che lesse o intese, e di quello che si stimò, sì come io ho veduto effettivamente, e non presumo che infiniti altri non abbiano del pari veduto o notato. Già se non ci avesse altra sensibilità che questa o simili a questa, non sarebbe oscuro se il sentimentale fosse materia conveniente d’altra poesia che di commedie, o satire, o scherzi di questa sorta. Ma quello ch’io dirò non si deve intendere di questa sensibilità impurissima e snaturatissima. Imperocché io voglio parlare di quella intima e spontanea, modestissima anzi ritrosa, pura dolcissima sublimissima, soprumana e fanciullesca, madre di gran diletti e di grandi affanni, cara e dolorosa come l’amore, ineffabile inesplicabile, donata dalla natura a pochi, ne’ quali dove non sia viziata e corrotta, dove non sia malmenata e soppressata e pesta, tenerissima com’ella è, dove non sia soffocata e sterminata, dove in somma vinca pienamente i fierissimi e gagliardissimi nemici che la contrariano, al che riesce oh quanto di rado! e oltracciò non sia scompagnata da altre nobili e insigni qualità, produce cose che durano, certo son degne di durare nella memoria degli uomini. Questa sensibilità non confesso ma predico e grido ch’è fonte copiosissimo di materia non solo conveniente ma propria della poesia. E se concedo al Cavaliere, ch’ella sia meglio efficace in noi che non fu negli antichi, non per questo vengo a dire che non sia naturalissima e, salvo in quanto ad alcuni accidenti, primitiva, giacch’ella sì com’è in noi, così fu naturalmente negli antichi, ed è parimente adesso ne’ campagnuoli, ma impedita di mostrare gli effetti suoi; laonde qualora gl’impedimenti furono più pochi o più deboli, o ella più forte, si sviluppò e manifestossi, e alle volte diede frutti che il mondo per anche ammira ed esalta, come accadde in Omero medesimo; appresso al quale chi non sente come sia poetico quello scendere di Penelope dalle sue stanze solamente perch’ha udito il canto di Femio, a pregarlo acciocché lasci quella canzone che racconta il ritorno de’ Greci da Troia, dicendo com’ella incessantemente l’affanna per la rimembranza e il desiderio del marito, famoso in Grecia ed in Argo; e le lagrime di Ulisse udendo a cantare i suoi casi, che volendole occultare, si cuopre la faccia, e così va piangendo sotto il lembo della veste finattanto ch’il cantore non fa pausa, e allora asciugandosi gli occhi, sempre che il canto ricomincia, si ricuopre e ripiange; e cento altre cose di questa fatta? Che bisogno c’è ch’io ricordi l’abboccamento e la separazione di Ettore dalla sposa, e il compianto di questa e di Ecuba e di Elena sopra il cadavere dell’eroe, mercé del quale, se mi è lecito far parola di me, non ho finito mai di legger l’Iliade, ch’io non abbia pianto insieme con quelle donne; e soprattutto il divino colloquio di Priamo e di Achille? il quale non mi maraviglio che sia conteso ad Omero da qualche filologo: mi maraviglierei, se non sapessi che i romantici non fanno caso d’incongruenze, che il Cavaliere tanto infervorato contro ai pedanti abbia dato orecchio a questa razza di filologi. Che dirò di Ossian, e dei costumi e delle opinioni così di lui come dei personaggi de’ suoi poemi, e della sua nazione a quei tempi? Ognuno vede senza ch’io parli, com’egli per essere e per parere al Breme «oltremodo patetico» sì nella «situazione» e sì nell’«espressione», non ebbe mestieri di molto incivilimento. Ma il Petrarca, al quale il Breme non «conosce poeta che nel genere» sentimentale «meriti di essere anteposto, quel miracolo d’ineffabile sensibilità», non visse in un tempo che non c’era né «psicologia» né «analisi» né scienza altro che misera e tenebrosa, quando la stampa era ignota, ignoto il nuovo mondo, il commercio scambievole delle nazioni e delle province ristretto e scarso e difficile, l’industria degli uomini addormentata da più secoli in poi, le credenze peggio che puerili, i costumi aspri, quasi tutta l’Europa o barbara o poco meno? Certo «la mente dell’uomo» non «si era» per anche «ripiegata sul cuore», non «ne aveva notato i lamenti», non «ascoltato la lunga istoria; l’animo umano» non «avea raccontato le migliaia cose alla immaginazione ritornando sulle diverse sue epoche e svolgendo le diverse sue Epopeie naturali, giudaiche, pagane, cristiane, selvagge, barbare, maomettane, cavalleresche, filosofiche», quando quello stesso secolo che produsse in Dante il secondo Omero, produsse nel Petrarca il maraviglioso l’incomparabile il sovrano poeta sentimentale, chiamato così non dico dai nostri ma dai romantici. E già che vale cercare esempi, e riandare le età passate? Non vediamo in questo medesimo tempo che la sensibilità in altri è vivacissima, in altri più rimessa, in altri languida, in altri nessuna, secondoché piace alla natura? né quello che la natura ha fatto si può cambiare? né può meglio chi non è nato sensitivo divenir tale, con tutta la civiltà e la scienza presente, di quello che possa diventar poeta chi non è nato alla poesia? Non vediamo come la sensibilità si manifesti e diffonda, singolarmente efficace e pura e bella, ne’ giovanetti, e ordinarissimamente si vada poi ritirando e nascondendo, o magagnando e sfigurando, a proporzione che l’uomo col crescere in età perde la prima candidezza, e s’allontana dalla natura? Che più? Di quanto crediamo che sia tenuta all’incivilimento quella qualità umana che ogni volta ch’è schietta ed intensa, le leggi di questo incivilimento vogliono che, dimostrandosi, venga burlata come cosa da collegiali; e perché, secondo l’assioma antichissimo di quella nazione che è capo e mente delle nazioni incivilite, il ridicolo è il maggior male che possa intervenire alle persone gentili, perciò vogliono che chiunque ha vera sensibilità guardi bene di non dimostrarla? tanto che si lasciano in pace e si lodano solamente quelli che quando si mostrano sensitivi, apparisce o vero è noto che o fingono, o la sensibilità negli animi loro ha poco fondo, o è guasta e scontraffatta. Dei quali costumi scellerati e omicidi che dirò io? Non capirebbero queste carte, non soffrirebbero gli occhi vostri, o Lettori, le esecrazioni ch’io spargerei, se dessi sfogo allo sdegno, contro questo iniquo soffocamento strage devastazione di cosa veneranda e santissima, conforto di queste miserie, cagione e premio di fatti magnanimi, seconda vita più cara della comune, e quantunque aspersa di molte lagrime, tuttavia meno dissimile a quella degl’Immortali. E qui mi avvedo com’è soverchio tutto questo discorso. Imperocché chi può dubitare che non sia naturalissima quella qualità ch’è quasi divina? Chi può credere che una vena così larga di moti così vivi, che una qualità così pura così profonda così beata così maravigliosa arcana ineffabile, sia nata dall’esperienza e dagli studi umani? Forseché non vediamo di che diversa natura sieno quelle derivate da questi principii, o vero da questi massimamente aiutate a sorgere e fomentate e corroborate? come esili come stentate come misere come secche come tutte in certo modo impure, come inette ad allagare e sommergere gli animi nostri, rispetto a questa? alla quale non rassomigliano altrimenti che gli arboscelli educati ne’ giardini dall’arte agli alberi cresciuti nelle campagne e ne’ monti dalla natura. In somma chi non vede in quelle la mano degli uomini, in questa la mano di Dio? chi ha mai provato veruno effetto di sensibilità pura e bene interna, che non sappia come questi effetti sono spontanei, come sgorgano mollemente, come non da scaturigine artifiziale ma ingenita? Non sono di questa specie le fatture nostre, né l’incivilimento è legno da tali frutti: non facciamo a noi tant’onore né tanto aggravio; non ci arroghiamo di aver potuto quello che non poté né potrà mai nessuno fuori che Dio, non ci abbassiamo oltre al dovere, giudicando terreno in noi quello ch’è celeste.

Ora non negando, conforme ho detto, che la sensibilità, comunque naturalissima, tuttavia dimostri meglio oggidì gli effetti suoi che non fece anticamente, dico che nell’esprimere questi medesimi effetti, e gli antichi furono in quanto alla maniera, divini come nelle altre parti della poesia, qualora n’espressero alcuno, e i moderni non s’hanno a discostare un capello dalla maniera antica, e coloro che se ne scostano, vale a dire e quelli che portano il nome di romantici, e quelli che per rispetto alle loro o prose o versi sentimentali, sono in certa guisa del bel numero, contutto ch’il nome non lo portino, e anche l’odino e lo rifiutino, vanno errati di grandissima lunga, e offendono scelleratamente, non isperino ch’io dica né Aristotele né Orazio, dico la natura. Imperocché non basta ch’il poeta imiti essa natura, ma si ricerca eziandio che la imiti con naturalezza; o più tosto non imita veramente la natura chi non la imita con naturalezza. Anche il Marini imitò la natura, anche i seguaci del Marini, anche i più barbari poetastri del seicento; e per proporre un esempio determinato e piano, imitò la natura Ovidio; chi ne dubita? e le imitazioni sue paiono quadri, paiono cose vive e vere. Ma in che modo la imitò? Mostrando prima una parte e poi un’altra e dopo un’altra, disegnando colorando ritoccando, lasciando vedere molto agevolmente e chiaramente com’egli facea colle parole quella cosa difficile e non ordinaria né propria di esse, ch’è il dipingere, manifestando l’arte e la dilìgenza e il proposito, che scoperto, fa tanto guasto; brevemente imitò la natura con poca naturalezza, parte per quel tristissimo vizio della intemperanza, parte perché non seppe far molto con poco, né sarebbe evidente se non fosse lungo e minuto. Con questa non efficacia ma pertinacia finalmente viene a capo di farci vedere e sentire e toccare, e forse talvolta meglio che non fanno Omero e Virgilio e Dante. Contuttociò qual uomo savio antepone Ovidio a questi poeti? anzi chi non lo pospone di lungo tratto? Chi non lo pospone a Dante? il quale è giusto il contrario d’Ovidio, in quanto con due pennellate vi fa una figura spiccatissima, così franco e bellamente trascurato che appena pare che si serva delle parole ad altro che a raccontare o a simili usi ordinari, mentreché dipinge superbamente, e il suo poema è pieno d’immagini vivacissime, ma figurate con quella naturalezza della quale Ovidio scarseggiando, sazia in poco d’ora, e non ostante la molta evidenza, non diletta più che tanto, perché non è bene imitato quello ch’è imitato con poca naturalezza, e l’affettazione disgusta, e la maraviglia è molto minore. E similmente si riprendono quelle tante pitture per lo più di mani oltramontane e oltramarine, dove la imitazione del vero è, se così vogliamo dire, molto acconcia e sottile, ma trasparisce la cura e l’artifizio, né i tocchi sono così risoluti e sicuri e in apparenza negletti come dovrebbero, di modo che il vero non è imitato veramente, né la natura naturalmente. Venendo dunque da questi esempi al proposito mio, dico che gli effetti della sensibilità, come gl’imitavano gli antichi naturalmente, così gl’imitano i romantici e i pari loro snaturatissimamente. Imitavano gli antichi non altrimenti queste che le altre cose naturali, con una divina sprezzatura, schiettamente e, possiamo dire, innocentemente, ingenuamente, scrivendo non come chi si contempla e rivolge e tasta e fruga e spreme e penetra il cuore, ma come chi riceve il dettato di esso cuore, e così lo pone in carta senza molto o punto considerarlo; di maniera che ne’ versi loro o non parlava o non parea che parlasse l’uomo perito delle qualità e degli affetti e delle vicende comunque oscure e segrete dell’animo nostro, non lo scienziato non il filosofo non il poeta, ma il cuore del poeta, non il conoscitore della sensibilità, ma la sensibilità in persona; e quindi si mostravano come inconsapevoli d’essere sensitivi e di parlare da sensitivi, e il sentimentale era appresso loro qual è il verace e puro sentimentale, spontaneo modesto verecondo semplice ignaro di se medesimo: e in questo modo gli antichi imitavano gli effetti della sensibilità con naturalezza. Che dirò dei romantici e del gran nuvolo di scrittori sentimentali, ornamento e gloria de’ tempi nostri? Che altro occorre dire se non che fanno tutto l’opposto delle cose specificate qui sopra? laonde appresso loro parla instancabilmente il poeta, parla il filosofo, parla il conoscitore profondo e sottile dell’animo umano, parla l’uomo che sa o crede per certo d’essere sensitivo, è manifesto il proposito d’apparir tale, manifesto il proposito di descrivere, manifesto il congegnamento studiato di cose formanti il composto sentimentale, e il prospetto e la situazione romantica, e che so io, manifesta la scienza, manifestissima l’arte per cagione ch’è pochissima: e in questo modo che naturalezza può essere in quelle imitazioni dove il patetico non ha nessuna sembianza di casuale né di negletto né di spontaneo, ma è nudo e palese l’intendimento risoluto dello scrittore, di fare un libro o una novella o una canzone o un passo sentimentale: e ometto come il patetico sia sparso e gittato e versato per tutto, entri o non entri, e fatti sensitivi, sto per dire, fino i cani o cose simili, con difetto non solo di naturalezza nella maniera, ma di convenienza nelle cose, e di giudizio e di buon senno nello scrittore. Non parlo già sol tanto di quegli scritti che per la intollerabile affettazione soprastando agli altri, sono riprovati e disprezzati universalmente; parlo anche, da pochissimi in fuori, di tutti quelli che il gusto fracido e sciagurato di una infinità di gente ha per isquisiti e preziosissimi; parlo di tutti quelli dove il sentimentale è manifestamente voluto, e molto bene consapevole e intelligente di se stesso, e amante della luce e vanaglorioso e sfacciato; le quali proprietà quanto sieno lontane e opposte a quelle della vera e incorrotta sensibilità, lo dica chiunque l’ha provata pure un istante. Non che sia sfacciata, ma è timida e poco meno che vergognosa; tanto non ama la luce, che quasi l’abborre, e d’ordinario la fugge, e cerca le tenebre, e in queste si diletta: né se l’ambizione umana e altre qualità che non hanno che fare con lei, la scrutinano e se ne pregiano e la mettono in luce, per questo si deve attribuire alla sensibilità quello ch’è proprio di tutt’altro: ma se il poeta la vuol dipingere e farla parlare, contuttoch’egli la conosca ben dentro, contuttoché se ne stimi, e sia vago di farne mostra, non la dee perciò dipingere né indurre a favellare in modo come se queste qualità del poeta fossero sue: né certamente parla appresso i romantici la sensibilità vera, e non istravolta né sformata e sconciata da forze estranie, o vogliamo dire contaminata e corrotta. La quale essendo di quella natura che ho detto, possiamo vedere non so s’io dica senza pianto o senza riso o senza sdegno, scialacquarsi il sentimentale così disperatamente come s’usa ai tempi nostri, gittarsi a manate, vendersi a staia; persone e libri innumerevoli far professione aperta di sensibilità; ridondare le botteghe di Lettere sentimentali, e Drammi sentimentali, e Romanzi sentimentali e Biblioteche sentimentali intitolate così, risplendere questi titoli nelle piazze; tanta pudicizia strascinata a civettare sulla stessa fronte de’ libri; fatta verissima baldracca quella celeste e divina vergine, bellezza degli animi che l’albergano; e queste cose lodate e celebrate, non dico dalla feccia degli uomini, ma da’ savi e da’ sapienti, e quando svergognano il genere umano, chiamate gloria dell’età nostra; e perché in Italia tanta sfacciataggine ancora, mercé di Dio, non è volgare, e i libri sentimentali per professione, son pochi, e questi pochi non sono suoi (no, italiani, ma derivati a dirittura e più spesso attinti dalle paludi verminose degli stranieri: non gli adduciamo vigliaccamente e stoltamente in difesa nostra, ma doniamogli, o più veramente rendiamogli a coloro che ci accusano: sieno stranieri essi, e con essi quegli scrittori ai quali, essendo per natura italiani, parve meglio di mostrarsi nello scrivere figliuoli d’altra terra) l’Italia per questo chiamata infingarda e ignorante e rozza e da poco, disprezzata villaneggiata schernita sputacchiata calpestata? Ed è chiaro che i romantici e l’altra turba sentimentale, non solamente coll’imitare senza naturalezza, ma scientemente e studiosamente e di proposito, imita con grande amore quella sensibilità che comunque forte e profonda, è sfigurata e snaturata dall’ambizione e dalla scienza e dal troppo incivilimento, o vero quelle altre da commedia che dicevamo alquanto sopra. Ora seguiti pure innanzi da valorosa, e beatifichi il mondo, e a se medesima acquisti gloria incomparabile e, se tutte le età future somiglieranno alla presente, immortale: io non ho più cuore di menarmi per bocca questa materia schifosissima che solamente a pensarne mi fa stomacare. Frattanto vadano e insuperbiscano della scienza dell’animo umano la quale col tempo è dovuta prosperare, e vantandosi di questa, disprezzino gli antichi, e si credano da molto più di loro nella poesia. Non ignoro ch’essi antichi per conto di questa scienza sottostanno ai moderni, meno certamente, che altri non va spacciando; imperocché appresso loro, sì come per esempio nei tragici greci, riscontriamo a ogni poco manifestissimi argomenti di cognizione così squisita e sottile da farci maravigliare, e quasi talvolta credere che in cambio di sottostare ci soprastieno: contuttociò prevalgono indubitatamente i moderni. Ma che giova che per rispetto alla cognizione di noi medesimi siamo più ricchi di quello che fossero i poeti antichi, se di queste ricchezze maggiori non sappiamo far uso che si possa pur mettere in paragone con quello che faceano gli antichi di ricchezze minori? E tuttavia, se questo difetto non venisse naturalmente insieme colla copia delle ricchezze, mi rallegrerei coll’età nostra, e non crederei troppo difficile che quando che sia dovesse sorgere qualche poeta il quale dipingendo la natura umana, trapassasse notabilmente gli antichi. Ora appunto la molta scienza ci toglie la naturalezza e l’imitare non da filosofi ma da poeti, come faceano gli antichi, dove noi dimostriamo da per tutto il sapere ch’essendo troppo, è difficilissimo a ricoprirlo, e scriviamo trattati in versi, ne’ quali non parlano le cose ma noi, non la natura ma la scienza, e così la finezza e squisitezza delle pitture, e le sentenze frequentissime e acutissime e recondite, di rado nascoste e contenute e nascenti da sé quantunque non espresse, ma per lo più rilevate e scolpite, e brevemente ogni cosa manifesta la decrepitezza del mondo, la quale com’è orribile a vedere nella poesia, così vogliono i romantici e i pari loro acciò colla maraviglia del rimanente si spenga tra gli uomini anche quella delle opinioni portentose, che s’imprima altamente nelle poesie moderne come carattere e distintivo, in maniera che apparisca e dia negli occhi a prima giunta. Chi nega che poetando non ci dobbiamo giovare della cognizione di noi medesimi, nella quale siamo tanto avanti? Gioviamocene pure, e poiché ci conosciamo bene, dipingiamoci al vivo; ma per Dio non mostriamo di conoscerci, se non vogliamo ammazzare la poesia. Lo schivare il qual male compiutamente, è difficilissimo, non impossibile: ben ci bisogna grandissimo studio di quei poeti che di scienza più scarsa fecero quell’uso, senza del quale è inutile ai poeti moderni la scienza più larga. E per esempio di quella celeste naturalezza colla quale ho detto che gli antichi esprimevano il patetico, può veramente bastare il solo Petrarca ch’io metto qui fra gli antichi, né senza ragione, perch’è loro uguale, oltreché fu l’uno dei primi poeti nel mondo appresso al gran silenzio dell’età media; e tuttavia, potendo anche addurre altri esempi innumerabili, mi piace di portare questi versi di Mosco presi dal Canto funebre in morte di Bione bifolco amoroso:

Ahi ahi, quando le malve o l’appio verde
o il crespo aneto negli orti perio,
si ravviva un altr’anno e rifiorisce.
Ma noi que’ grandi e forti uomini o saggi,
come prima siam morti, in cava fossa
lungo infinito ineccitabil sonno
dormiam, dov’altri mai voce non ode:
e tu starai sotterra ascoso e muto,
quando parve alle ninfe eterno canto
dare alla rana: a cui però non porto
invidia, che canzon dolce non canta.

Altro splendidissimo esempio di quella immortale naturalezza è Virgilio, nel qual poeta fu per certo una sensibilità così viva e bella quanto presentemente in pochissimi. De’ cui molti e divini luoghi sentimentali non posso fare ch’io non ricordi la favola d’Orfeo ch’è nel fine delle Georgiche, e di questa non reciti quella similitudine:

Qualis populea moerens Philomela sub umbra
amissos queritur foetus, quos durus arator
observans, nido implumes detraxit: at illa
flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
integrata et moestis late loca questibus implet.

Che è? Non dubito che a moltissimi il sentimentale di Virgilio e del Petrarca e degli altri tali non paia appresso a poco tutt’una cosa con quello per lo meno di una gran parte dei moderni. Anzi vedo che non pochi di costoro mentreché lodano mentrech’esaltano mentreché scrivono cose delle quali è da credere che i posteri qualche volta arrossiranno e stomacheranno, ardiscono di rammentare quei poeti soprumani in modo come se fossero della schiatta loro, e partecipi della stessa corona, e familiari e compagni, quando però non li fanno inferiori, come sovente, alle ignominie del tempo nostro e delle nazioni che le producono e le ammirano. Questi tali e chiunque non discerne a prima vista la differenza che corre fra il sentimentale degli antichi e nominatamente dei due che si son detti e quello dei moderni, forsech’io debbo credere che possano arrivare a discernerla mai? temere che non mi dieno per vinto e non mi deridano e non mi disprezzino? e non più tosto desiderarlo? Desidero, o Lettori, focosamente, e domando al cielo, non dico il biasimo né le ingiurie né l’odio che a molti suol essere meno gravoso, ma il disprezzo di costoro, sapendo che se bene questo può cadere alle volte in persone da poco, certamente non è da molto colui nel quale egli non cade. Ora non metterò a confronto la delicatezza la tenerezza la soavità del sentimentale antico e nostro, colla ferocia colla barbarie colla bestialità di quello dei romantici propri. Certamente la morte di una donna amata è un soggetto patetico in guisa ch’io stimo che se un poeta, colto da questa sciagura, e cantandola, non fa piangere, gli convenga disperare di poter mai commuovere i cuori. Ma perché l’amore dev’essere incestuoso? perché la donna trucidata? perché l’amante una cima di scellerato, e per ogni parte mostruosissimo? Troppe parole si potrebbero spendere intorno a questo argomento, stante che l’orridezza è l’uno dei caratteri più cospicui del sentimentale romantico; ma quanto più cose ci sarebbero da dire, tanto più volentieri le tralascio; e sia pur gloria dei romantici, come gridano, l’esser più dilettati dalla sensibilità dei demonii che degli uomini, e vituperio nostro l’avere tanto o quanto di contraggenio alle bellezze invernali. Ma quel ridurre pressoché tutta la poesia ch’è imitatrice della natura, al sentimentale, come se la natura non si potesse imitare altrimenti che in maniera patetica; come se tutte le cose rispetto agli animi nostri fossero sempre patetiche; come se il poeta non fosse più spinto a poetare da nessuna cosa, eccetto la sensibilità, o per lo meno senza questa; come se non ci fosse più gioia non ira non passione quasi veruna, non leggiadria né dolcezza né forza né dignità né sublimità di pensieri, non ritrovato né operazione veruna immaginativa senza un colore di malinconico; questa cosa con che nome si deve chiamare? Dunque le cetre dei poeti avranno per l’avvenire una corda sola? e ciaschedun poema assolutamente e tutti rispettivamente saranno unisoni? dunque non ci saranno epopee, non canzoni trionfali, non inni non odi non canti di nessuna sorta se non patetici? non parlo del quanto è da stimare che accresceremo il diletto della poesia, togliendole tanta parte di quella varietà senza la quale, si può dir tutte le cose di questo mondo, non che la poesia, vengono in fastidio così per poco. Ma che diremo dei cantori passati? Dunque Virgilio non fu poeta fuorché nel quarto dell’Eneide, e nell’episodio di Niso ed Eurialo, e che so io? Dunque il Petrarca dove non parlò d’amore non fu poeta? dunque Pindaro, perché non fu sentimentale, non fu poeta? dunque Omero non fu poeta? o vero fu (come parve a molti che fosse), ma non è più? o vero è poeta e sarà, e diletta e diletterà supremamente, ma nessun poeta moderno dee cantare in quella forma? Ora come sarà disdetto ai poeti il cantare nella forma di Omero e di Pindaro e in breve degli antichi, finattantoché gli antichi diletteranno? e questo ineffabilmente? Ma non voglio parere anch’io quello che paiono i romantici, mettendomi di proposito a confutare queste fandonie.

E non altrimenti io credo che gitterei le parole e il tempo se volessi ricordare la sazievolezza e la stanchezza massimamente del terribile e di tutti gli altri caratteri gagliardi oltre al consueto (peggio poi quando sieno eccessivi, come appresso i romantici), dei quali non si può far uso più che tanto lungo e frequente senza una singolare ignoranza delle cose dell’animo nostro, né senza interminabile o riso o stupore o compassione della gente savia quando altri per soprappiù si dia vanto di «psicologo» eccellentissimo; se volessi notare la fatica e lo sforzo dei romantici per durarla sempre con quella veemenza sterminata, che ha per natura di essere in quasi tutte le cose ordinariamente poco durevole, il quale sforzo, e vengo a dire l’affettazione è così manifesta, che ci bisogna un cieco o un romantico a non vederla; se volessi domandare ai nuovi poeti come dalla «psicologia» non abbiano imparato ad apprezzare specialissimamente, e conservare con ogni studio la moderazione, non solamente in quelle che ho detto, ma in tutte le altre cose appartenenti alla poesia (giacché adesso non ci conviene parlare fuorché di queste), non la necessità di scelta avveduta e di mescolanza opportuna, non quelle tante verità ch’essendo certe e sperimentate, e la cognizione loro derivando o più tosto essendo contenuta nella cognizione dell’animo umano, e avendole notate e ripetute mille volte quell’arte poetica frivolissima e antica, è maraviglioso che le ignori la scienza «psicologica» divina e moderna; se volessi chiedere al mondo come abbia potuto nascere in questi tempi chi dimenticasse quella verità originaria e fondamentale, che nelle arti belle si richiede la convenienza, vale a dire che nessuna cosa stia fuori di luogo, la qual verità si para spontaneamente innanzi a chiunque considera tanto o quanto la natura o di esse arti o degli uomini o delle cose, né si può disprezzare senza che qualsivoglia arte diventi inetta a produrre altro che mostri, come in un viso piccolo un naso grande, come in un edifizio svelto un ornato greve, come in qualunque sia cosa la sconvenienza cagiona la bruttezza, o più veramente la bruttezza assoluta non è altro che sconvenienza. Di queste cose perché danno singolarmente nell’occhio, ha parlato e parla qualunque ha contraddetto o contraddice ai romantici, di modo ch’io poco o niente di nuovo ne potrei dire; come anche di quella mirabile e prodigiosa contraddizione, di negare che le credenze e i costumi antichi si convengano alla poesia moderna, e accogliere e cercare e rappresentare con sommo affetto le credenze e i costumi settentrionali orientali americani. Forseché questi hanno molto che fare coi nostri? convengono molto col sapere odierno d’Europa? e non più tosto in grandissima parte assai meno che quelli de’ greci e de’ latini? E se cercano cose remote e diverse dalle nostrali a cagione del maraviglioso e del venerando, perché dunque rigettano le cose greche e le latine? forsech’il venerando e il maraviglioso non può essere altro che barbaro? anzi come ponno esser venerande le cose di coloro che si disprezzano? e qual gente è più disprezzata che le barbare? massime di una barbarie come quella, per esempio, de’ popoli maomettani. Perché, a dimostrare aspetti grandi, e rappresentare azioni nobili, va introdotto più tosto un Agà che un tribuno, più tosto un Pechinese che un Lacedemone, piuttosto un ceffo che un volto? Ma lascio questo. Dunque tutto il male sta nel tempo, in maniera che quando la lontananza di luogo, con tutta la diversità di costumi e di opinioni che porta seco, non fa danno anzi giova, la lontananza di tempo è intollerabile e micidiale? Ora come succede che noi, leggendo i poeti, e non solamente i poeti ma eziandio gli storici e gli altri tali, siamo così facili a entrare a parte e frammetterci negli avvenimenti e nelle cose greche e romane di venti o più secoli addietro, e così difficili in quelle comunque freschissime o presenti, poniamo caso, del Tibet o della Nubia o degli irocchesi o degli afgani o anche di gente più nota e famosa? in prova di che, lasciando le molte ragioni che si potrebbero addurre, basti allegare l’esperienza universale. Che dirò delle favole barbare sostituite dai nostri riformatori in luogo delle greche? Niente, perch’è materia divulgatissima, e tocca, si può dire, da chiunque sparla dei romantici; se non che mi rallegrerò prima col nostro secolo, il quale tra il greco e il barbaro non dubito che non abbia fatto un bel cambio, poi co’ nemici della pedanteria, che non debbono trovar luogo dall’allegrezza, vedendo ch’i poeti oramai non si potranno intendere senza postille e comenti. Imperocché le favole greche in Europa si sanno a memoria da chicchessia: bene o male, convenga o disdica all’età nostra, piaccia o non piaccia ai romantici, il fatto sta così; e quando il poeta europeo si serve di esse favole, e usa quell’idioma favoloso, o anche se n’abusa, eccetto se l’abuso non fosse enorme, è inteso da tutti coloro fra’ quali ed a’ quali canta: ma le favole settentrionali orientali americane quanti le sanno o se ne curano? talmente ch’è forza o ch’i poeti nostri stando in Europa, non cantino all’Europa, ma più tosto all’Asia all’Affrica all’America, e, facciamo che debbano essere intesi adoperando le favelle europee, ci bisognerà un bel vocione a volere che sieno uditi; o si lavorino a posta un’altra Europa bene istrutta di quelle favole onde questa nostra si beffa e non le n’importa un’acca; o finalmente ch’i poemi si trascinino dietro le loro note e le loro chiose, e questo senza fallo ammazzerà la pedanteria, giacché sapete bene che un comento lastricato, per esempio, di pezzi dell’Edda maggiore o minore, o dell’Alcorano o di Ferdosi o dei Purana o del Ramaiana o del Megaduta, non sarebbe mica pedantesco, ma seminato di versi d’Omero o di Virgilio o di Dante, sì bene, perché la pedanteria sta essenzialmente e immobilmente fitta e radicata nelle cose greche e latine e italiane. E questo che ho detto delle favole, s’intenda parimente delle opinioni e delle usanze. Già non fa di mestieri non dico notare ma né anche ricordare quella famosissima contraddizione dei romantici che riguarda le favole, essendoch’ella non può sdrucciolare dalla memoria degli uomini, se prima il tempo non abolisce ogni qualsivoglia ricordanza di questa setta. Certo ch’il rifiutare e deridere e bestemmiare le favole greche, negando ch’il sapere dell’età presente conceda spazio nelle menti nostre alle illusioni favolose, e intanto così facendo, pescar l’oriente e il settentrione e qualunque paese barbaro è illuminato dal sole, e far materia sostanzialissima di poesia le favole loro, in grandissima parte mostruosissime e ridicolissime, tutte oltremodo ripugnanti alle credenze nostre, tutte disprezzate, perch’essendo vanità per se stesse, niuna cosa estrinseca le fa venerande, non l’averle noi studiate e venerate da fanciulli, non memoria degli avi nostri, non pregio né fama insigne né uso frequente appresso noi di scrittori che le abbiano adoperate, o in altra maniera segnalate, non gloria né dignità delle nazioni che le inventarono, o accolsero e coltivarono, le quali anzi essendo barbare e tali che ciascuno di noi si vergognerebbe se avesse per madre qualunque tra loro è più nobile, s’anche hanno qualche cosa pregevole, siamo inclinati a disprezzarla, e senz’alcun dubbio non sogliamo curarla gran fatto; certo che quest’è una contraddizione così formale e sfacciata, ch’è impossibile a nasconderla, impossibile a colorarla, e non voglio dire i fanciulli, ma credo che le bestie, purché potessero intendere qualcheduno dei linguaggi umani, arriverebbero facilmente a conoscerla. Ora che dobbiamo stimare di quella disciplina dove troviamo ripugnanze di questa sorta? vale a dire e palpabili e capitali? quando colui che contraddice a se medesimo, tanto sta peggio di colui che dice il falso, quanto costui può esser convinto, quegli si convince di propria bocca; e il detto di costui può cadere per mano d’altri, quello senza nessuno impulso rovina da per se stesso; e questo anche svolto e messo in luce, può nondimeno aver sembianza di vero, quello, sol tanto che le sue parti sieno poste in chiaro e confrontate insieme, non può. E tuttavia la disciplina romantica ha seguaci e difensori e predicatori, e spazia per l’Alemagna e l’Inghilterra e assalisce l’Italia nostra, tanto ch’io mi maraviglio veramente, o Lettori, di questo secolo. Ma poiché m’è venuta fatta menzione delle favole greche, noterò con poche parole una svista rilevantissima del Cavaliere intorno a esse favole, dalla quale nuovamente potremo intendere quanta parte della scienza «psicologica » de’ nuovi settari consista nel gridare che ne son zeppi, e nel gergo scolastico e nelle tenebre. Imperocché il Breme volendo mostrare «la vanità poetica della mitologia» (ponete mente ch’egli non dice mica «la vanità filosofica» o somigliante, ma «poetica»), e avendo detto che «la natura è vita modificata in migliaia di guise», e che «la poesia tanto più ama di credere o di fingere» che «dovunque è vita siavi parimenti coscienza e sentimento di un se stesso, quanto meno è dimostrato dalla ragione»; e che «l’attitudine poetica, ch’è nell’animo umano si compiacque mai sempre di questa fantasia»; prosegue dicendo che «nelle mitologie la natura veniva piuttosto convertita in individui che immediatamente avvivata»: il qual «sistema », se bene «il primo concetto, da qualunque avvenimento sia proceduto, ne fu, anzichenò, immaginoso», nondimeno «doveva sottrarre ogni dì più al sentimento e snaturare a poco per volta tutti gli oggetti, e impoverirci il cuore di elementi poetici; perocché infrapponendo sempre persone fra noi e i fenomeni naturali, e fra noi e noi stessi, non solamente rendeva infine troppo uniforme l’artifizio poetico, ma lo spogliava della più miracolosa fra tutte le magie, quella cioè che attribuisce un senso ad ogni cosa, e riconosce vita sotto tutte le possibili forme, non esclusivamente sotto le umane». E così riprovando il «sistema mitologico», e opponendogli il «vitale», ch’«è seguìto », dice, «con predilezione dalla poesia moderna», vuole in sostanza che il poeta avvivi checchessia tal qual è, non trasmutandolo in persona umana; e che tutto senta e viva, non però tutto il mondo sia popolato di persone: e reca per esempio certi versi del Byron dove toccando una novella Persiana degli amori della rosa e dell’usignolo, attribuisce alla rosa innamorata sospiri odoriferi. Della qual sentenza discorrerò brevemente.

È certo e manifestissimo e ingenito non solo ne’ poeti ma universalmente negli uomini, un desiderio molto efficace di vedere e toccare e aggirarsi tra cose vive, dal qual desiderio mossa la fantasia vivifica oggetti insensati, come vediamo, e come dice il Cavaliere nei passi riferiti di sopra, e io dirò poco stante. La natura di questo desiderio si può discernere considerando, a cagione d’esempio, gli effetti che fa negli animi nostri una pittura di paese, la quale s’è vota d’ogni figura d’animale, per molto che ci diletti a riguardarla, nondimeno sogliamo provare una certa scontentezza, e un desiderio maldistinto come di cosa che manchi; e la scontentezza è minore caso che ci si vegga rappresentata qualche statua, ma poco minore, perché conoscendo che quella è imitazione di cosa non viva ma solamente ritratta, secondoché si finge, dal vivo, poca vita ci può trovare l’immaginazione. Molto più ci consola e ricrea, se ci occorre nessuna figura di bestia, che rompa la solitudine, e animi la veduta. Ma né pur questa ci contenta, né ci può contentare altro che figure umane, e queste tanto più quanto più sono accurate e notabili; che allora in esse quasi ci riposiamo, e per esse prendiamo più gusto delle altre parti del quadro, trovataci quella vita che desideriamo, benché per l’ordinario senz’avvedercene. E questa è, non dico la principale, ma certo una delle cagioni per cui sono tanto più dilettose e pregiate le pitture e sculture di animali, e singolarmente di persone, che non di soli paesi o di qualsivoglia cosa inanimata. Ma vediamo in che forma soglia gratificare l’immaginativa nostra a questo desiderio ingenerato negli uomini, specialmente quand’ella essendo più libera, in modo che la sua forza è più manifesta, seconda meglio e più efficacemente la natura; io voglio dire nei fanciulli: nei quali in oltre sì come la podestà della natura universalmente è maggiore che nei provetti, così particolarmente di quel desiderio naturale ch’io dico; laonde le proprietà e gli effetti di questo risaltano meglio, e si possono esaminare più facilmente. E vi prego, o Lettori, che non vogliate credere ch’io dia nel leggero e nel fanciullesco, se anderò dietro a certe minuzie, perché, s’io non fallo, indagando queste minuzie, perverremo in breve all’intento nostro, al quale forse anche non potremmo arrivare per altra strada. Quanto sia comune e trita usanza delle immaginative puerili il vivificare oggetti insensati, e non c’è quasi chi l’ignori, ed a me stesso è accaduto già di mentovarlo in questo Discorso. Ma bisogna considerare che vita sia quella che da esse immaginative si attribuisce a questi tali oggetti. Ora chiunque ci porrà mente, verrà subito in chiaro che nella immaginativa de’ putti il sole e la luna appresso a poco non sono altro che un uomo e una donna, e il tuono e il vento e il giorno e la notte e l’aurora e il tempo e le stagioni e i mesi e l’ozio e la morte e infinite cose d’ogni genere non sono altro che uomini o donne, e in somma i fanciulli non attribuiscono alle cose inanimate altri affetti altri pensieri altri sensi altra vita che umana, e quindi proccurano altresì di vestirle, ed effettivamente le vestono di forme umane il meglio che possono, quando più quando meno confusamente, secondo la facoltà immaginativa di ciascheduno, e le altre circostanze. Ed io mi ricordo ch’essendo piccino, costumava non solamente spassarmi ad avvivare, e guardare e mostrare altrui per maniera come se vivessero, ma eziandio cercare e trovare alcuni vestigi di sembianza umana, secondoch’allora mi pareano, evidenti, negli alberi ch’erano lungo le strade per cui mi menavano, e in altre cose tanto remote da ogni similitudine umana, ch’io stimo per certo d’avere a muovere il riso specificandone qualcheduna, come dire i caratteri dell’alfabeto, e seggiole e vaselli e altri arnesi di cento specie, e cose simili; nelle quali in oltre mi figurava di scorgere parecchie diversità di fisonomia, che riputandole argomento di buona o cattiva indole, m’erano poi motivo d’amar queste e d’odiar quelle. E tanto manifestamente si diletta la fantasia nostra in attribuire alle cose non vita semplicemente ma vita umana, che non appagandosi di qualunque non è tale, s’ingegna di trasmutarla in questa medesima nostra vita, come vediamo segnatamente nei fanciulli, che si fingono le bestie ragionevoli e intellettive, e discorrono e conversano seco loro non altrimenti che colle persone. Da tutte queste cose, che quantunque sieno più cospicue ne’ fanciulli, non per questo non appariscono almeno in parte anche nei provetti, secondo massimamente che resta all’immaginazione maggiore o minore imperio, da tutte queste, e da molte altre che si potrebbero dire, facilmente si raccoglie che quel desiderio naturale di vita del quale trattiamo, provenga da quella vastissima inclinazione che tutti abbiamo alle creature simili a noi, madre di svariatissimi effetti, e non sia veramente altro che un desiderio della presenza di tali creature; laonde se potesse avvenire che una cosa pensasse e non vivesse, questa cosa non rassomigliando alle creature viventi, né anche avrebbe in sé questo desiderio di vita; sì come questo medesimo (e intendo, come v’accorgete, non mica il desiderio di vivere, ma quello che ho determinato di sopra), se ha punto di forza nei bruti, è da credere che gli spinga a desiderare ciascuno la vita della sua specie. Ora venendo a quello che scaturisce da questi principii, non tanto io quanto voi stessi, o Lettori, spontaneamente avvertirete in primo luogo la naturalezza e bellezza delle favole greche, le quali compiacendo a questo desiderio poeticissimo ch’è in noi, popolarono il mondo di persone umane, e alle stesse bestie attribuirono origine umana, acciocché l’uomo trovasse in certa maniera per tutto, quello che non l’esempio né l’insegnamento né l’uso né la pedanteria né «il gusto classico» né le altre baie fantasticate dai romantici, ma la natura lo spinge irrepugnabilmente a cercare, dico enti simili a sé, né riguardasse veruna cosa con noncuranza; e il poeta potesse rivolgersi colle parole a checchessia, conforme ha per costume ingenito e naturale, non altrimenti che i fanciulli: secondariamente come stieno male in bocca d’un maestro di «psicologia» quelle parole, che «il primo concetto» d’avvivare la natura convertendola in individui di questa nostra specie, «da qualunque avvedimento sia proceduto », fu, «anzichenò, immaginoso»; appunto come se questo concetto fosse stato casuale e arbitrario, e non naturalissimo e necessarissimo, né venuto allo stesso Breme quando era bambino, e anche oggi mandato sovente ad effetto dalla sua propria immaginativa: ultimamente la vanità e stranezza di quella sentenza del Cavaliere, che abbiamo preso a discutere, vale a dire che il poeta volendo avvivar la natura, gli convenga avvivarla «immediatamente», e non come gli antichi, trasformando le cose inanimate in persone. Il che quanto sia non dirò falso, ma peggio che ridicolo e intollerabile, apparisce non solo dalle cose che si son dette, ma in oltre primieramente da questo, che noi non fummo giammai né saremo tocchi, né prenderemo cura, né verremo, per così dire, a parte degli affetti o delle azioni, o di qualsivoglia altra cosa appartenente alle creature introdotte o comunque mentovate dal poeta, se queste non saranno simili a noi; e veruno al mondo non pianse né piangerà delle disgrazie d’un fiore o d’un pomo o d’un lago o d’un monte, né si rallegrò delle fortune di una stella, eccetto se prima non l’ebbe immaginando trasmutata in persona. E che questo sia vero (se bene chi ne dubita? o chi non avrà voglia di burlarsi di me vedendo ch’io quasi mi metto a provare una sentenza così rancida e triviale?) non solamente è dannosa anzi mortifera la dissomiglianza delle creature, ma anche degli uomini, tanto che c’importano assai meno le cose dei Neri che quelle de’ Bianchi, e tra i Bianchi assai meno quelle de’ Samoiedi o de’ Cinesi o di qualunque differisce grandemente da noi di costumi o di forme o d’altra cosa notabile, che quelle de’ nostrali; ond’è, lo dirò pure, propriamente matta la consuetudine dei romantici di pigliar soggetti e persone specialissimamente dai barbari cantando agl’inciviliti, o vero introdur gente il più che sanno straordinaria, e mostri di natura, coi quali ci convenga immedesimarci e rallegrarci e dolerci e provare quegli affetti che piaccia al poeta. E certamente che quello che tutto il mondo sa ed afferma, sia negato o ignorato dai romantici, è affatto maraviglioso, ma quello che sto per dire è incredibile. Poiché la maniera voluta dal Breme non solo è nemica della natura, non solo scemerebbe indicibilmente il diletto poetico, ma, lasciando tutto questo, è impossibile. In oltre l’esempio del Byron portato dal Cavaliere, non solamente non giova a lui, ma conferma né più né meno quello ch’io dico. Forseché veruno di noi si può figurare nessuna vita diversa dall’umana? forsech’all’animo nostro è, non dico facile, ma possibile il concepire l’idea d’un sentimento d’un affetto d’un pensiero non umano? Lasciamo stare i poeti che non posson essere troppo sottili. Io provoco qualunque è al mondo o filosofo o metafisico o «psicologo» o, quello ch’è più di tutto, romantico a immaginarsi una maniera di vivere differente dalla nostra, la quale possano attribuire a Dio che sappiamo di certo come vive altrimenti che l’uomo, agli Angeli, a qualsivoglia sostanza visibile o invisibile, materiale o no, reale o immaginaria. E se non possono essi e non può l’uomo idearsi positivamente altra maniera di vivere che la propria (e dico positivamente perché negativamente è facile, ma non ha che fare colla poesia), se altre specie di vita appena c’induciamo a credere che ci possano essere, non che sappiamo immaginarne veruna, come dunque e che vita se non umana attribuirà il poeta alle cose? come potrà il poeta, il quale parla al popolo, e non segue la ragione ma la natura, quello che non può il metafisico? Ma stante ch’egli non possa vivificare altrimenti, converrà che dia sì bene alle cose vita umana, ma non perciò le rivesta di forme umane? Che cos’è altro il poetare non dico da barbaro ma da persona di un altro mondo? E ci dovranno mettere avanti agli occhi ora piante ora sassi ora nuvole ora strumenti, e in somma cose d’ogni genere, con dir che sentono e pensano e vivono come fa l’uomo, non essendo altro a vederli che sassi e piante e che so io, non mutati niente di figura, né meno confusamente né meno lasciandolo il poeta immaginare agli uditori, anzi proccurando che quanto alla forma non si figurino punto di umano; e questo non come cose stravaganti e miracolose, ma ordinarie, non per capriccio ma per istituto, non di rado ma tuttogiorno? Non vede il Breme che queste sarebbero menzogne, non già sol tanto assolute, ma poetiche, inverisimili incredibili impudenti? non vede che tanto è naturale all’uomo il vestire gli oggetti insensati di forme umane, quanto l’avvivarli? né quella proprietà si può separare da questa? e per levargli quel vizio bisognerebbe rifarlo? non vede ch’il poeta è uomo? che gli uditori del poeta son uomini? a questo dunque saremo giunti? e la poesia nostra non sarà più solamente barbara, ma in tutto e per tutto disumana? anzi, come ho detto, di un altro mondo, giacché delle stesse bestie diceva Senofane che «se i buoi se gli elefanti avessero mani, e con queste potessero dipingere, e fare quelle cose che fanno gli uomini, allora i cavalli dipingendo gli Dei gli avrebbero fatti di figura cavallina, e i buoi di figura bovina, e dato loro un corpo simile al proprio ». E soggiungeva che gli Etiopi si figuravano i loro Dei neri e camosci, e i Traci d’occhio cilestro e colore vermiglio, e parimente gli Egizi i Medi i Persiani se li fabbricavano ciascuna gente in sembianza simile alla sua. La qual cosa detta da Senofane di queste poche nazioni barbare, noi la possiamo nello stesso modo affermare di cento altre sconosciute agli antichi: tanto è naturale e universale e indelebile il costume d’immaginarsi in figura somigliante alla propria quelle cose che sapendo o credendo o fingendo che vivano, altra vita non ce ne possiamo ideare fuorché la propria. Che se le bestie, alle quali non sappiamo attribuire affetto o pensiero o sentimento altro che umano, tuttavia non ci pare incredibile che vivano, come fanno, sotto altra forma, questo nasce primieramente che la forma loro s’assomiglia alla nostra quanto conviene essendo il genere loro e il nostro uno solo; poi che l’inverisimile è vinto dal vero, e l’uso impedisce la maraviglia. Ma tanta è la forza del verisimile, che noi siamo più propensi a creder vivo qualunque oggetto inanimato s’accosta alla figura ordinaria degli animali, che non qualunque animale se ne scosta notabilmente, salvo se questo non è volgare in modo che la stranezza della forma non faccia caso per cagione della consuetudine. Ora poniamo che il poeta abbia avvivato oggetti privi di senso, lasciando loro né più né meno la forma naturale: o questi oggetti staranno sempre immobili e inoperosi, e al poeta basterà di dire che vivono e amano e odiano e sperano e temono e cose tali; o dovendo dar segni di vita, e operare, e dimostrare colle cose di fuori le cose di dentro, saprei volentieri che moti che atti che operazioni, in somma che vita esterna attribuirà loro il poeta; e quali effetti farà l’intrinseco, il quale come ho detto non può essere altro che umano, nell’estrinseco il quale sarà tutt’altro; e parimente in che modo le cose esterne opereranno in questi oggetti che non hanno organi come noi né come gli altri animali. Vediamo in che maniera abbia proceduto il Byron, da certi versi del quale il Cavaliere prende occasione d’esporre questa sentenza che abbiamo per le mani; e i versi son questi, riportati dal Cavaliere secondo la traduzione del Rossi:

Che là sul colle e in seno al praticello
dell’usignuol discopri la signora,
quella per cui l’innamorato augello
fa la sua risonar voce canora;
e del suo vago al canto un verginale
rossor la donna de’ bei fior colora.
Lontana là dal verno occidentale,
da freddi venti, da gelata brina,
e blandita da Zefiro vitale
la dei giardin, dell’usignuol regina
il profumo che a lei natura diede
ne’ suoi calici accoglie, e sì lo affina
che in più soave incenso al ciel poi riede.
Oh quanta i suoi sospir spargon fragranza!

Ci vuole un tedesco a pronunziare quest’ultimo verso: ma badiamo al fatto nostro. Quando il poeta ha finto che la rosa innamorata si tinga in presenza dell’amante di rossore verginale, e sospiri, che altro ha fatto se non trasformata la rosa in persona umana? Chi s’immagina un sospiro non s’immagina anche una bocca? e se una bocca, non anche un volto? e se un volto, non anche una persona? Onde la rosa, volere o non volere, e nella fantasia del poeta e nella fantasia de’ lettori è una donna. Se non che l’immagine è languida e incerta perché quelle due finzioni del poeta, essendo troppo comuni e leggere, non bastano a suscitare nella fantasia più che tanto, come se un pittore mostra solamente i capelli o altra tal parte di una figura. E già, non destando verun’immagine, il che senza fallo è piacevolissimo, e convenientissimo alla poesia, facilmente s’impedisce che il lettore non si figuri nessun vestigio di forma umana. Il fatto sta che o sorge nella fantasia de’ lettori l’immagine di una donna, o la rosa resta una rosa qual è, né amante né amata né viva né altro che un fior vero e semplice: e se molte o tutte le finzioni del poeta moderno riuscissero a un esito come questo, chi può dire il guadagno che ci farebbe la poesia nostra? Ed ecco la maniera onde il Breme ha dimostrato «la vanità poetica della mitologia». Qui potrei discorrere della foggia d’imitare tenuta dai romantici, e considerandola rispetto al fine della poesia ch’è il diletto, rammemorare ch’esso diletto quando scaturisce dalla imitazione del vero, non procede soltanto dalle qualità degli oggetti imitati, ma in oltre specialissimamente ed essenzialmente dalla maraviglia che nasce dal vedere quei tali oggetti quasi trasportati dove non pareva appena che si potesse, e rappresentati da cose che non pareano poterli rappresentare; di modo che infiniti oggetti i quali in natura non dilettano punto, imitati dal poeta o dal pittore o da altro tale artefice, dilettano estremamente; e altri che dilettavano anche reali, dilettano da vantaggio imitati. Dalla qual cosa apparisce quanto s’ingannino i romantici pensando d’accrescer pregio alla poesia con rendere la imitazione oltre ogni modo facile, e sottrarla da ogni legge, e sostituire meglio che possono il vero in luogo del simile al vero, sì che vengono a scemare e quasi annullare il maraviglioso, e per conseguenza il dilettoso dell’imitazione, il quale è tanto essenziale che tolto via, si può dire che il diletto poetico parte si riduca alla metà, parte al niente. E in oltre imitando la poesia massime romantica infinite cose che in natura non solamente non dilettano anzi molestano, né possono dilettare altrimenti che imitate, il metterci queste cose avanti agli occhi non tanto imitate quanto vere, non è né bizzarria, né gusto singolare, né stranezza di opinioni, né fierezza né altro, ma pura e pretta ignoranza, e grossezza di cervello. Credono i romantici che l’eccellenza della imitazione si debba stimare solamente secondoch’ella è vicina al vero, tanto che cercando lo stesso vero, si scordano quasi d’imitare, perché il vero non può essere imitazione di se medesimo. Ma l’imitare semplicemente al vivo, e del resto comeché sia, non è pur cosa facile ma triviale: imita ciascuno di noi tutto giorno, imita il volgo principalmente, imitano le bertucce, imitava quel buffone di Fedro quanto si può dire al naturale il grugnito del porco. Ma che maraviglia deriva da questa sorta d’imitazioni? e quindi che diletto? Se la sentenza dei romantici fosse vera, andrebbe fatto molto più conto delle balie che dei poeti, e un fantoccio vestito d’abiti effettivi con parrucca, viso di cera, occhi di vetro, varrebbe assai più che una statua del Canova o una figura di Raffaello. Ma la faccenda non va così, non mica perché tutto il mondo tiene e ha tenuto il contrario; poiché ragionevolmente si persuadono i romantici che tutto il mondo e tutte le età del mondo non vagliano un’acca rispetto a loro; ma perché il diletto cagionato dal poeta e dagli artefici, come sa e prova chiunque ha la mente sana, è senz’alcun paragone maggiore di quello che partoriscono queste imitazioni facili e volgari che vediamo e sentiamo e facciamo alla giornata, nonostantech’in grandissima parte sieno tanto vive quanto nessuna imitazione di poeta o d’artefice; e quelle difficoltà e quelle leggi, oltreché sono convenientissime e necessarie per altri rispetti, fanno la imitazione maravigliosa e dilettevole; ma senza nessuna difficoltà e senza nessuna legge non è maraviglia che s’imiti vivamente. Ed io vedo, per esempio, che appresso i poeti antichi s’incontrano molto di rado quei troncamenti e quelle interruzioni e sospensioni che i moderni fanno a gara di seminarle da per tutto, empiendo le pagine di lineette o di punti; perché stimavano che il vero nella poesia non si dovesse introdurre ma imitare, e che l’imitare in guisa troppo facile, e uscire dalle leggi ordinarie della poesia non accrescesse il diletto ma lo scemasse. Talmente che paragonando la poesia loro a quella statua o figura dipinta ch’io dicea poco sopra, la poesia romantica, la quale imita il calpestìo de’ cavalli col trap trap trap, e il suono de’ campanelli col tin tin tin, e così discorrendo, si può molto acconciamente rassomigliare a quel fantoccio, o volete a un burattino che ha la mobilità da vantaggio. Che se l’evidenza sola va cercata nelle imitazioni, perché non dismettiamo del tutto questa materia disadattissima delle parole e dei versi, e non ci appigliamo a quella scrittura di certi barbari ch’esprime i concetti dell’animo con figure in vece di caratteri? anzi perché ciaschedun poeta in cambio di scrivere non inventa qualche bella macchina la quale mediante diversi ingegni metta fuori di mano in mano vedute e figure di qualsivoglia specie, e imiti il suono col suono, e in breve, rappresentando ordinatamente quello che sarà piaciuto all’inventore, non operi sol tanto nella immaginativa ma eziandio ne’ sensi del non più lettore ma spettatore e uditore e che so io? E mentrech’io scrivo queste cose, viene con un nome infernale da un paese romantico uno strumento non dissimile in quanto all’ufficio da questo ch’io m’andava immaginando quasi per giuoco; ed io mi rallegro d’aver preveduto dove convenia che arrivasse la nuova scuola, e mi dolgo che né meno da scherzo si possa quasi né dire né pensar cosa tanto strana e ridicola che dai romantici non sia pensata e detta e, potendo, praticata da buon senno. Anche potrei confermare quello che ho scritto in altro luogo di questo Discorso, del quanto giovi alla imitazione che gli oggetti sieno comuni, e per lo contrario noccia che sieno straordinari e sconosciuti; imperocché allora il maraviglioso e per tanto il dilettevole della imitazione è molto scarso, non potendosi veruno maravigliare che sia ritratta al naturale una cosa ch’egli non sappia come sia fatta, e quando anche l’imitazione sia vivissima, cagionando appresso a poco lo stesso effetto che un’invenzione del poeta: ora fu noto ai bisavi, ed è noto ai fanciulli che generalmente è molto più facile e meno maraviglioso l’inventare che l’imitare. Ed io so bene che l’esperienza propria fa fede a chicchessia di quello ch’io dico, né c’è persona la quale non si avveda che quando ella contempla, poniamo caso, una bella pittura o scultura, suol provare a cagione della maraviglia uno squisitissimo diletto notando così tutta l’imitazione come questa o quella parte quanto somigli bene e accuratamente al vero, e quasi credendo di vedersi davanti lo stesso oggetto imitato; nel quale anche sogliamo por mente allora a non poche minuzie, che nel vederlo effettivamente, per lo più non attendiamo: né questo diletto può cadere in chiunque non conoscendo o appena conoscendo l’oggetto reale, non può confrontare seco medesimo senza veruna difficoltà né fatica l’imitazione colla cosa imitata, né discernere a prima giunta la somiglianza scambievole dell’una e dell’altra. Avea deliberato di parlare di tutte queste cose distintamente. Ma oramai sono sazio di scrivere, e voi sarete sazi di leggere, se però la pazienza v’avrà sostenuti fin adesso, o Lettori miei. Perciò bastino le cose che si son dette. Ma già sul finire, essendomi sforzato sin qui di costringere i moti dell’animo mio, non posso più reprimerli, né tenermi ch’io non mi rivolga a voi, Giovani italiani, e vi preghi per la vita e le speranze vostre che vi moviate a compassione di questa nostra patria, la quale caduta in tanta calamità quanta appena si legge di verun’altra nazione del mondo, non può sperare né vuole invocare aiuto nessuno altro che il vostro. Io muoio di vergogna e dolore e indignazione pensando ch’ella sventuratissima non ottiene dai presenti una goccia di sudore, quando assai meno bisognosa ebbe torrenti di sangue dagli antichi prontissimi e lieti; né c’è una penna tra noi che s’adopri per quella che gli avi nostri difesero e accrebbero con milioni e milioni di spade. Soccorrete, o Giovani italiani, alla patria vostra, date mano a questa afflitta e giacente, che ha sciagure molto più che non bisogna per muovere a pietà, non che i figli, i nemici. Fu padrona del mondo, e formidabile in terra e in mare, e giudice dei popoli, e arbitra delle guerre e delle paci, magnifica ricca lodata riverita adorata; non conosceva gente che non la ubbidisse, non ebbe offesa che non vendicasse, non guerra che non vincesse; non c’è stato imperio né fortuna né gloria simile alla sua né prima né dopo. Tutto è caduto: inferma spossata combattuta pesta lacera e alla fine vinta e doma la patria nostra, perduta la signoria del mondo e la signoria di se stessa, perduta la gloria militare, fatta in brani, disprezzata oltraggiata schernita da quelle genti che distese e calpestò, non serba altro che l’imperio delle lettere e arti belle, per le quali come fu grande nella prosperità, non altrimenti è grande e regina nella miseria. Questo solo regno questa gloria questa vita rimane alla patria nostra quasi levata dal numero delle nazioni, grande avanzo d’immensa grandezza, sempre finora invidiato e bestemmiato invano dagli altri popoli, insofferenti che la regina del mondo, quantunque sordida e guasta, a ogni modo non sia per anche spogliata di scettro e di corona. Ma già per rapirle questo medesimo avanzo adoprano armi ed arti assai più terribili e potenti che per l’addietro, studiandosi di viziare e corrompere gl’ingegni italiani, e imbarbarire le arti e lettere nostre, e fare che la misera Italia di maestra delle nazioni moderne diventi emula e imitatrice, e di signora, uguale e serva, e, quello che nessun altro ha potuto, si spogli finalmente del regno e s’uccida essa stessa. Io vi prego e supplico, o Giovani italiani, io m’atterro dinanzi a voi; per la memoria e la fama unica ed eterna del passato, e la vista lagrimevole del presente, impedite questo acerbo fatto, sostenete l’ultima gloria della nostra infelicissima patria, non commettete per Dio che quella che per colpa d’altri infermò, per colpa d’altri agonizza, muoia fra le mani vostre per colpa vostra. Che valse che quella nazione il cui dominio consumato nella decima parte di un secolo, tanto ha durato meno del nostro quanto era degno, ci rapisse le opere de’ nostri artefici, e sfornisse le vie le case i tempii gli altari nostri per adornare le sue piazze e le sale, forse anche i tempii e gli altari insanguinati, quasi le dovesse fruttar gloria e non vergogna l’aver tolto colle armi a un popolo inerme quelle opere ch’ella forzatamente ammirando e invidiando, non seppe né sa produrre? Non le opere dovea rapirci ma gl’ingegni, e quella divina fiamma che non ci fa ebbri né pazzi né rabbiosi, non diavoli incarnati né bestie, ma quasi numi; né però ci taglia i nervi, né c’empie di superstizione e codardia, né del timore d’offendere occhi e orecchi paurosi e schivi della natura, né ci manda dietro alle inezie o alle bolle per piacere a un popolo tutto fatto di spuma, presso al quale è vanto la leggerezza come presso agli altri la gravità, né ritrova lode una pagina che non sia stillata per lambicco dal cervello dello scrittore, biasimato e disprezzato ogni volta che non sia spiritoso. Certo quelle tele e quei marmi cattivi in un luogo dove confluia tutta l’Europa, accusavano la povertà e superbia di quella gente, e predicavano l’eccellenza e ricchezza di questa terra ch’ella ha sempre odiata e odierà, già vinta dalle armi nostre armata e potente e ripugnante, poi vincitrice di noi fiacchi ed inermi ed immobili, ma sempre vinta nelle arti e nello scrivere, ch’è maschio appresso noi, femmina imbelle e civetta appresso lei. Ora questa, debellata due volte dal ferro, e aperto a viva forza l’artiglio, ha rilasciato la preda; e quelle opere immortali ch’erano e saranno sempre nostre, dovunque la fortuna le sbalzi, ritornate alla patria loro, albergano qui fra noi, beando gli occhi e gli animi nostri, e quasi gridando ci esortano ad emulare quei divini artefici nati da una stessa madre con noi, che imitando questa natura, e contemplando questo cielo e questi campi e questi colli, a se medesimi acquistarono e alla patria mantennero nome e gloria più durevole dei regni e delle nazioni. Ma se alla voce loro e dei sommi scrittori nostri e di tutte le età passate e della ragione e della natura prevarrà la voce dei nuovi maestri, e se alla fine ci sarà tolto, non la vista delle pitture e delle statue, ma l’uso conveniente dei nostri ingegni, certo che questo tesoro ricuperato incredibilmente, laddove prima svergognava i suoi ladroni, svergognerà noi medesimi, e attesterà la fine del nostro regno e la morte dell’Italia. La qual cosa pur troppo è da temere che non avvenga, e in questa medesima età spettatrice del lutto e del giubilo dell’Italia spogliata e rivestita; pur troppo vedo corrotta la lingua, il che non è mai scompagnato dalla corruttela del gusto; vedo negletti e avuti a schifo i nostri sovrani scrittori, e i greci e i latini antecessori nostri, e accolte, e ingozzate ghiottissimamente, e lodate e magnificate quante poesie quanti romanzi quante novelle quanto sterco sentimentale e poetico ci scola giù dalle alpi o c’è vomitato sulle rive dal mare; vedo languido e pressoché spento l’amore di questa patria: vedo gran parte degl’italiani vergognarsi d’essere compatriotti di Dante e del Petrarca e dell’Ariosto e dell’Alfieri e di Michelangelo e di Raffaello e del Canova. Ora chi potrebbe degnamente o piangere o maledire questa portentosa rabbia, per cui, mentre i Lapponi e gl’Islandesi amano la patria loro, l’Italia, l’Italia dico, non è amata, anzi è disprezzata, anzi sovente è assalita e addentata e insanguinata da’ suoi figli? O Giovani italiani: lascio stare le cose antiche; purché vogliamo essere questo medesimo, io dico italiani, ancora siamo grandi; ancora parliamo quella favella a cui cedono tutte le vive, e che forse non cederebbe alle morte; ancora abbiamo nelle vene il sangue di coloro che prima in un modo e quindi in un altro signoreggiarono il mondo; ancora beviamo quest’aria e calchiamo questa terra e godiamo questa luce che godé un esercito d’immortali; ancora arde quella fiamma che accese i nostri antenati, e parlino le carte dell’Alfieri e i marmi del Canova; ancora non è cambiata quell’indole propria nostra, madre di cose altissime, ardente e giudiziosa, prontissima e vivacissima, e tuttavia riposata e assennata e soda, robusta e delicata, eccelsa e modesta, dolce e tenera e sensitiva oltre modo, e tuttavia grave e disinvolta, nemica mortalissima di qualsivoglia affettazione, conoscitrice e vaga sopra ogni cosa della naturalezza, senza cui non c’è né fu né sarà mai beltà né grazia, amante spasimata e finissima discernitrice del bello e del sublime e del vero, e finalmente savissima temperatrice della natura e della ragione; ancora siamo più di qualunque altro popolo vicini a quel punto, che quando si oltrepassa, non è quella civiltà ma barbarie, come si vide ne’ greci e si vide ne’ romani, e se ora non ci par di vedere in nessuna gente d’Europa, viene che molti oggetti non si distinguono da presso ma solamente discosto, e che non sappiamo quasi mai ragguagliare le cose lontane colle vicine in maniera che non ci paiano differenti, come spessissimo non sono. Questa patria, o Giovani italiani, considerate se vada sprezzata e rifiutata, vedete se sia tale da vergognarsene quando non accatti maniere e costumi e lettere e gusto e linguaggio dagli stranieri, giudicate se sia degna di quella barbarie la quale io seguitando fin qui colla scrittura, non ho saputo né potuto appena adombrare. Io non vi parlo da maestro ma da compagno, (perdonate all’amore che m’infiamma verso la patria vostra, se ragionando per lei m’arrischio di far parola di me stesso) non v’esorto da capitano, ma v’invito da soldato. Sono coetaneo vostro e condiscepolo vostro, ed esco dalle stesse scuole con voi, cresciuto fra gli studi e gli esercizi vostri, e partecipe de’ vostri desideri e delle speranze e de’ timori. Prometto a voi prometto al cielo prometto al mondo, che non mancherò finch’io viva alla patria mia, né ricuserò fatica né tedio né stento né travaglio per lei, sì ch’ella quanto sarà in me non ritenga salvo e fiorente quel secondo regno che le hanno acquistato i nostri maggiori. Ma che potrò io? e qual uomo solo ha potuto mai tanto quanto bisogna presentemente alla patria nostra? Alla quale se voi non darete mano così com’è languida e moribonda, sopravvivrete o Giovani italiani all’Italia, forse anch’io sciagurato sopravvivrò. Ma sovvenite alla madre vostra ricordandovi degli antenati e guardando ai futuri, dai quali non avrete amore né lode se trascurando avrete si può dire uccisa la vostra patria; secondando questa beata natura onde il cielo v’ha formati e circondati; disprezzando la fama presente che tocca per l’ordinario agl’indegni, e cercando la fama immortale che agl’indegni non tocca mai, ch’essendo toccata agli artefici e scrittori italiani e latini e greci, non toccherà né a’ romantici né a’ sentimentali né agli orientali né a veruno della schiatta moderna; considerando la barbarie che ci sovrasta; avendo pietà di questa bellissima terra, e de’ monumenti e delle ceneri de’ nostri padri; e finalmente non volendo che la povera patria nostra in tanta miseria, perciò si rimanga senz’aiuto, perché non può essere aiutata fuorché da voi.


Avvertimento

Questo discorso che da principio s’intitolava, Intorno alle Osservazioni del Cavaliere Lodovico di Breme sulla poesia moderna, fu cominciato appena venute in luce le dette Osservazioni ne’ quaderni undecimo e seguente dello «Spettatore italiano»: poi non sapendo l’autore sbrigarsi in un batter d’occhio dell’assunto di trattare queste materie, e intanto altri più felice avendo risposto, e il Cavaliere felicissimo avendo replicato immediatamente e diffusissimamente, l’autore non giudicò di frammettersi in questa lite per allora; e oltracciò non parendogli che l’Italia fosse mossa da quelle Osservazioni a segno che dovesse far troppo caso di un libro che semplicemente le confutasse, e crescendogli la materia fra le mani, si regolò in guisa che questo Discorso, cambiato il titolo, a ogni modo ritiene la sua prima forma di risposta alle Osservazioni del Cavaliere.


Note

  1. Luciano nel principio dell’Erodoto