Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono

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Galileo Galilei

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DISCORSO

INTORNO ALLE COSE CHE STANNO IN SU L'ACQUA

O CHE IN QUELLA SI MUOVONO.

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DISCORSO

AL SERENISSIMO

DON COSIMO II

GRAN DUCA DI TOSCANA

Intorno alle cose, che Stanno in sù l'acqua, ò che
in quella si muovono,

DI GALILEO GALILEI

filosofo, e Matematico della Medesima
ALTEZZA SERENISSIMA

IN FIRENZE,

Appresso Cosimo Giunti. MDCXII.

Con licenza de' Superiori.

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DISCORSO

AL SERENISSIMO

DON COSIMO II

GRAN DUCA DI TOSCANA

Intorno alle cose, che Stanno in sù l'acqua, ò che
in quella si muovono,

DI GALILEO GALILEI

filosofo, e Matematico della Medesima
ALTEZZA SERENISSIMA

SECONDA EDITIONE.

IN FIRENZE,

Appresso Cosimo Giunti. MDCXII.

Con licenza de' Superiori.

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A I BENIGNI LETTORI


COSIMO GIUNTI.





Per sodisfare a molti, che di Venezia, di Roma, e di altri luoghi mi chiedevono e mi chieggono con instanza il presente trattato, dopo ch’ e’ s’erano finiti tutti qui in Firenze, mi risolvei stamparlo di nuovo, e ne avvisai l’Autore; il quale avendo visto per esperienza che alcuni luoghi di esso a’ men pratichi nelle cose di geometria riuscivan alquanto oscuri a ’ntendersi, gli è parso di agevolarli con aggiugnervi alcune cose a maggior chiarezza, senza rimuoverne o mutarne alcuna delle scritte di prima. Però potete esser certi, cortesi Lettori, di aver in questa seconda impressione l’istesso che aveste nella prima, e più le suddette dichiarazioni, le quali si sono stampate di diverso carattere, perchè si possan conoscer prontamente da tutti. Vivete felici.




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DISCORSO


Al Serenissimo Don Cosimo II,
gran duca di toscana,

INTORNO ALLE COSE CHE STANNO IN SU L'ACQUA O CHE IN QUELLA SI MUOVONO,


di


GALILEO GALILEI,


FILOSOFO E MATEMATICO DELLA MEDESIMA ALTEZZA SERENISSIMA.




Perch’io so, Principe Serenissimo, che il lasciar vedere in pubblico il presente trattato, d’argomento tanto diverso da quello che molti aspettano e che, secondo l’intenzione che ne diedi nel mio Avviso Astronomico, già dovrei aver mandato fuori, potrebbe per avventura destar concetto, o che io avessi del tutto messo da banda l’occuparmi intorno alle nuove osservazioni celesti, o che almeno con troppo lento studio le trattassi; ho giudicato esser bene render ragione sì del differir quello, come dello scrivere e del pubblicare questo trattato.

Quanto al primo, non tanto gli ultimi scoprimenti di Saturno tricorporeo e delle mutazioni di figure in Venere, simili a quelle che si veggono nella Luna, insieme con le conseguenze che da quelle dependono, hanno cagionato tal dilazione, quanto l’investigazion de’ tempi delle conversioni di ciaschedun de’ quattro Pianeti Medicei intorno a Giove, la quale mi succedette l’aprile dell’anno passato 1611, mentre era in Roma; dove finalmente m’accertai, che ’l primo, e più vicino a Giove, passa del suo cerchio gradi 8 e m. 29 in circa per ora, faccendo la ’ntera conversione in giorni naturali 1 e ore 18 e quasi meza. Il secondo fa nell’orbe suo g. 4, m. 13 prossimamente per ora, e l’intera revoluzione in giorni 3, or. 13 e un terzo incirca. Il terzo passa in un’ora gr. 2, m. 6 in circa del suo cerchio, e lo misura tutto in giorni 7, ore 4 prossimamente. Il quarto, e più [p. 64 modifica] lontano degli altri, passa in ciaschedun’ora gr. 0, m. 54 e quasi mezo, del suo cerchio, e lo finisce tutto in giorni 16, or. 18 prossimamente. Ma perchè la somma velocità delle loro restituzioni richiede una precisione scrupolosissima per li calcoli de’ luoghi loro ne’ tempi passati e futuri, e massimamente se i tempi saranno di molti mesi o anni, però mi è forza con altre osservazioni, e più esatte delle passate, e tra di loro più distanti di tempo, corregger le tavole di tali movimenti, e limitargli sino a brevissimi stanti. Per simili precisioni non mi bastano le prime osservazioni, non solo per li brevi intervalli di tempi, ma perchè, non avendo io allora ritrovato modo di misurar con istrumento alcuno le distanze di luogo tra essi pianeti, notai tali interstizi con le semplici relazioni al diametro del corpo di Giove, prese, come diciamo, a occhio, le quali, benchè non ammettano errore d’un minuto primo, non bastano però per la determinazione dell’esquisite grandezze delle sfere di esse stelle. Ma ora che ho trovato modo di prender tali misure senza errore anche di pochissimi secondi, continuerò l’osservazioni sino all’occultazion di Giove; le quali dovranno essere a bastanza per l’intera cognizione de’ movimenti e delle grandezze de gli orbi di essi Pianeti, e di alcune altre conseguenze. Aggiungo a queste cose l’osservazione d’alcune macchiette oscure, che si scorgono nel corpo solare: le quali, mutando positura in quello, porgono grand’argomento, o che ’l Sole si rivolga in sè stesso, o che forse altre stelle, nella guisa di Venere e di Mercurio, se gli volgano intorno, invisibili in altri tempi per le piccole digressioni e minori di quella di Mercurio, e solo visibili quando s’interpongono tra ’l Sole e l’occhio nostro, o pur danno segno che sia vero e questo e quello; la certezza delle quali cose non debbe disprezzarsi o trascurarsi.

Ànnomi finalmente le continuate osservazioni accertato, tali macchie esser materie contigue alla superficie del corpo solare, e quivi continuamente prodursene molte, e poi dissolversi, altre in più brevi ed altre in più lunghi tempi, ed esser dalla conversione del Sole in sè stesso, che in un mese lunare in circa finisce il suo periodo, portate in giro; accidente per sè grandissimo, e maggiore per le sue conseguenze.

Quanto poi all’altro particulare, molte cagioni m’hanno mosso a scrivere il presente trattato, soggetto del quale è la disputa che a’ giorni addietro io ebbi con alcuni letterati della città, intorno alla quale, come [p. 65 modifica] sa V. A., son seguiti molti ragionamenti. La principale è stato il cenno dell’A. V., avendomi lodato lo scrivere come singolar mezzo per far conoscere il vero dal falso, le reali dall’apparenti ragioni, assai migliore che ’l disputare in voce, dove o l’uno o l’altro, e bene spesso amendue che disputano, riscaldandosi di soverchio o di soverchio alzando la voce, o non si lasciano intendere, o traportati dall’ostinazione di non si ceder l’un l’altro lontani dal primo proponimento, con la novità delle varie proposte confondono lor medesimi e gli uditori insieme. Mi è paruto, oltre a ciò, convenevole, che l’A. V. resti informata da me ancora di tutto ’l seguito circa la contesa di cui ragiono, sì come n’è stata ragguagliata molto prima da altri. E perchè la dottrina che io sèguito nel proposito di che si tratta è diversa da quella d’Aristotile e da’ suoi principii, ho considerato che contro l’autorità di quell’uomo grandissimo, la quale appresso di molti mette in sospetto di falso ciò che non esce dalle scuole peripatetiche, si possa molto meglio dir sua ragione con la penna che con la lingua, e per ciò mi son risoluto scriverne il presente Discorso: nel quale spero ancor di mostrare che, non per capriccio, o per non aver letto o inteso Aristotile, alcuna volta mi parto dall’opinion sua, ma perchè le ragioni me lo persuadono, e lo stesso Aristotile mi ha insegnato quietar l’intelletto a quello che m’è persuaso dalla ragione, e non dalla sola autorità del maestro; ed è verissima la sentenza d’Alcinoo, che ’l filosofare vuol esser libero. Nè fia, per mio credere, senza qualch’utile dell’universale la resoluzione della quistion nostra; perciò che trattandosi, se la figura de’ solidi operi o no nell’andare essi, o non andare, a fondo nell’acqua, in occorrenze di fabbricar ponti o altre macchine sopra l’acqua, che avvengono per lo più in affari di molto rilievo, può esser di giovamento saperne la verità.

Dico dunque che, trovandomi la state passata in conversazione di letterati, fu detto nel ragionamento, il condensare esser proprietà del freddo, e fu addotto l’esemplo del ghiaccio. Allora io dissi che avrei creduto più tosto il ghiaccio esser acqua rarefatta, che condensata; poi che la condensazione partorisce diminuzion di mole e augumento di gravità, e la rarefazione maggior leggerezza e augumento di mole, e l’acqua nel ghiacciarsi cresce di mole, e ’l ghiaccio già fatto è più leggier dell’acqua, standovi a galla.

È manifesto quant’io dico: perchè, detraendo il mezo dalla total [p. 66 modifica] gravità de i solidi tanto, quanto è il peso d’altrettanta mole del medesimo mezo, come Archimede dimostra nel primo libro Delle cose che stanno su l’acqua, qualunque volta si accrescerà per distrazion la mole del medesimo solido, più verrà dal mezo detratto della intera sua gravità, e meno quando per compressione verrà condensato e ridotto sotto minor mole.

Mi fu replicato, ciò nascere non dalla maggior leggerezza, ma dalla figura larga e piana, che, non potendo fender la resistenza dell’acqua, cagiona che egli non si sommerga. Risposi, qualunque pezzo di ghiaccio, e di qualunque figura, star sopra l’acqua; segno espresso, che l’essere piano e largo quanto si voglia, non ha parte alcuna nel suo galleggiare: e soggiunsi che argomento manifestissimo n’era il vedersi un pezzo di ghiaccio di figura larghissima, posto in fondo dell’acqua, subito ritornarsene a galla; chè, s’e’ fosse veramente più grave, e ’l suo galleggiare nascesse dalla figura impotente a fender la resistenza del mezo, ciò del tutto sarebbe impossibile. Conchiusi per tanto, la figura non esser cagione per modo alcuno di stare a galla o in fondo, ma la maggiore o minor gravità in rispetto dell’acqua; e per ciò tutti i corpi più gravi di essa, di qualunque figura si fussero, indifferentemente andavano a fondo, e i più leggieri, pur di qualunque figura, stavano indifferentemente a galla: e dubitai che quelli che sentivano in contrario si fossero indotti a credere in quella guisa dal vedere come la diversità della figura altera grandemente la velocità e tardità del moto, sì che i corpi di figura larga e sottile discendono assai più lentamente nell’acqua che quelli di figura più raccolta, faccendosi questi e quelli della medesima materia; dal che alcuno potrebbe lasciarsi indurre a credere, che la dilatazione della figura potesse ridursi a tale ampiezza, che non solo ritardasse, ma del tutto impedisse e togliesse, il più muoversi; il che io stimo esser falso. Sopra questa conclusione nel corso di molti giorni furon dette molte e molte cose, e diverse esperienze prodotte, delle quali l’A. V. alcune intese e vide; e in questo Discorso avrà tutto quello che è stato prodotto contro alla mia asserzione, e ciò che mi è venuto in mente per questo proposito e per confermazione della mia conclusione. Il che se sarà bastante per rimuover quella che io stimo sin ora falsa opinione, mi parrà d’avere non inutilmente impiegata la fatica e ’l tempo: e quando ciò non avvenga, pur debbo sperarne un altro mio utile proprio, cioè di venire in cognizion della verità, nel sentir riprovare le [p. 67 modifica] mie fallacie e introdurre le vere dimostrazioni da quelli che sentono in contrario.

E per procedere con la maggiore agevolezza e chiarezza che io sappia, parmi esser necessario, avanti ad ogni altra cosa, dichiarare qual sia la vera, intrinseca e total cagione dell’ascendere alcuni corpi solidi nell’acqua e in quella galleggiare, o del discendere al fondo; e tanto più, quanto io non posso interamente quietarmi in quello che da Aristotile viene in questo proposito scritto.

Dico, dunque, la cagione per la quale alcuni corpi solidi discendono al fondo nell’acqua, esser l’eccesso della gravità loro sopra la gravità dell’acqua, e, all’incontro, l’eccesso della gravità dell’acqua sopra la gravità di quelli esser cagione che altri non discendano, anzi che dal fondo si elevino e sormontino alla superficie. Ciò fu sottilmente dimostrato da Archimede, ne’ libri Delle cose che stanno sopra l’acqua; ripreso poi da gravissimo Autore, ma, s’io non erro, a torto, sì come di sotto, per difesa di quello, cercherò di dimostrare.

Io con metodo differente e con altri mezzi procurerò di concludere lo stesso, riducendo le cagioni di tali effetti a’ principii più intrinsechi e immediati, ne’ quali anco si scorgano le cause di qualche accidente ammirando e quasi incredibile, qual sarebbe che una picciolissima quantità d’acqua potesse col suo lieve peso sollevare e sostenere un corpo solido, cento e mille volte più grave di lei. E perché così richiede la progressione dimostrativa, io definirò alcuni termini, e poi esplicherò alcune proposizioni, delle quali, come di cose vere e note, io possa servirmi a’ miei propositi.

Io, dunque, chiamo egualmente gravi in ispecie quelle materie, delle quali eguali moli pesano egualmente: come se, per esemplo, due palle, una di cera e l’altra d’alcun legno, eguali di mole, fussero ancora eguali in peso, diremmo quel tal legno e la cera essere in ispecie egualmente gravi.

Ma egualmente gravi di gravità assoluta chiamerò io due solidi li quali pesino egualmente, benché di mole fussero diseguali: come, per esemplo, una mole di piombo e una di legno, che pesino ciascheduna dieci libre, dirò essere in gravità assoluta eguali, ancorché la mole del legno sia molto maggior di quella del piombo, ed, in conseguenza, men grave in specie.

Più grave in specie chiamerò una materia che un’altra, della [p. 68 modifica] quale una mole eguale a una mole dell’altra peserà più: e così dirò, il piombo esser più grave in ispecie dello stagno, perché, prese di loro due moli eguali, quella di piombo pesa più. Ma più grave assolutamente chiamerò io quel corpo di questo, se quello peserà più di questo, senza aver rispetto alcuno di mole: e così un gran legno si dirà pesare assolutamente più d’una piccola mole di piombo, benché il piombo in ispecie sia più grave del legno. E lo stesso intendasi del men grave in ispecie e men grave assolutamente.

Definiti questi termini, io piglio dalla scienza meccanica due principii. Il primo è, che pesi assolutamente eguali, mossi con eguali velocità, sono di forze e di momenti eguali nel loro operare.

Momento, appresso i meccanici, significa quella virtù, quella forza, quella efficacia, con la quale il motor muove e ’l mobile resiste; la qual virtù depende non solo dalla semplice gravità, ma dalla velocità del moto, dalle diverse inclinazioni degli spazii sopra i quali si fa il moto, perché più fa impeto un grave descendente in uno spazio molto declive che in un meno. Ed in somma, qualunque si sia la cagione di tal virtù, ella tuttavia ritien nome di momento. Né mi pareva che questo senso dovesse giugner nuovo nella nostra favella; perché, s’io non erro, mi par che noi assai frequentemente diciamo “Questo è ben negozio grave, ma l’altro è di poco momento”, e “Noi consideriamo le cose leggiere, e trapassiamo quelle che son di momento”: metafore, stimer’io, tolte dalla meccanica.

Come, per esemplo, due pesi d’assoluta gravità eguali, posti in bilancia di braccia eguali, restano in equilibrio, né s’inclina l’uno alzando l’altro; perché l’egualità delle distanze di ambedue dal centro, sopra il quale la bilancia vien sostenuta e circa il quale ella si muove, fa che tali pesi, movendosi essa bilancia, passerebbono nello stesso tempo spazii eguali, cioè si moverieno con eguali velocità, onde non è ragione alcuna, per la quale questo peso più di quello, o quello più di questo, si debba abbassare; e per ciò si fa l’equilibrio, e restano i momenti loro di virtù simili ed eguali.

Il secondo principio è, che il momento e la forza della gravità venga accresciuto dalla velocità del moto; sì che pesi assolutamente eguali, ma congiunti con velocità diseguali, sieno di forza, momento e virtù diseguale, e più potente il più veloce, secondo la proporzione della velocità sua alla velocità dell’altro. Di questo abbiamo accomodatissimo esemplo nella libra o stadera di braccia diseguali, nelle [p. 69 modifica] quali posti pesi assolutamente eguali, non premono e fanno forza egualmente, ma quello che è nella maggior distanza dal centro, circa il quale la libra si muove, s’abbassa sollevando l’altro, ed è il moto di questo, che ascende, lento, e l’altro veloce: e tale è la forza e virtù che dalla velocità del moto vien conferita al mobile che la riceve, che ella può esquisitamente compensare altrettanto peso che all’altro mobile più tardo fosse accresciuto; sì che, se delle braccia della libra uno fosse dieci volte più lungo dell’altro, onde, nel muoversi la libra circa il suo centro, l’estremità di quello passasse dieci volte maggiore spazio che l’estremità di questo, un peso posto nella maggior distanza potrà sostenerne ed equilibrarne un altro dieci volte assolutamente più grave che non è egli; e ciò perché, movendosi la stadera, il minor peso si moveria dieci volte più velocemente che l’altro maggiore. Debbesi però sempre ’ntendere che i movimenti si faccino secondo le medesime inclinazioni, cioè che, se l’uno de’ mobili si muove per la perpendicolare all’orizzonte, che l’altro parimente faccia ’l suo moto per simil perpendicolare; e se ’l moto dell’uno dovesse farsi nell’orizzontale, che anche l’altro sia fatto per lo stesso piano; e, in somma, sempre amendue in simili inclinazioni. Tal ragguagliamento tra la gravità e la velocità si ritrova in tutti gli strumenti meccanici, e fu considerato da Aristotile come principio nelle sue Questioni meccaniche: onde noi ancora possiamo prender per verissimo assunto che pesi assolutamente diseguali, alternatamente si contrappesano e si rendono di momenti eguali, ogni volta che le loro gravità con proporzione contraria rispondono alle velocità de’ lor moti, cioè che quanto l’uno è men grave dell’altro, tanto sia in constituzione di muoversi più velocemente di quello.

Esplicate queste cose, già potremo cominciare ad investigare quali sieno que’ corpi solidi che possono totalmente sommergersi nell’acqua e andare al fondo, e quali per necessità soprannuotano, sì che, spinti per forza sott’acqua, ritornano a galla con una parte della lor mole eminente sopra la superficie dell’acqua: e ciò faremo noi con lo speculare la scambievole operazione di essi solidi e dell’acqua, la quale operazione conséguita alla immersione; e questa è che, nel sommergersi che fa il solido, tirato al basso dalla propria sua gravità, viene discacciando l’acqua dal luogo dove egli successivamente subentra, e l’acqua discacciata si eleva e innalza sopra il primo suo livello, [p. 70 modifica] al quale alzamento essa altresì, come corpo grave, per sua natura resiste. E perché, immergendosi più e più il solido discendente, maggiore e maggior quantità d’acqua si solleva, sin che tutto il solido si sia tuffato, bisogna conferire i momenti della resistenza dell’acqua all’essere alzata, co’ momenti della gravità premente del solido: e se i momenti della resistenza dell’acqua pareggeranno i momenti del solido avanti la sua totale immersione, allora senza dubbio si farà l’equilibrio, né più oltre si tufferà il solido; ma se il momento del solido supererà sempre i momenti co’ quali l’acqua scacciata va successivamente faccendo resistenza, quello non solamente si sommergerà tutto sott’acqua, ma discenderà sino al fondo; ma se, finalmente, nel punto della total sommersione si farà l’agguagliamento tra i momenti del solido premente e dell’acqua resistente, allora si farà la quiete, e esso solido, in qualunque luogo dell’acqua, potrà indifferentemente fermarsi.

È sin qui manifesta la necessità di comparare insieme le gravità dell’acqua e de’ solidi; e tale comparazione potrebbe nel primo aspetto parere sufficiente per poter concludere e determinare, quali sieno i solidi che sopranuotino, e quali quelli che vanno in fondo, pronunziando che quelli sopranuotino che saranno men gravi in ispecie dell’acqua, e quelli vadano al fondo che in ispecie saranno più gravi: imperocché pare che il solido nel sommergersi vada tuttavia alzando tant’acqua in mole, quanta è la parte della sua propria mole sommersa; per lo che impossibil sia che un solido men grave in ispecie dell’acqua si sommerga tutto, come impotente ad alzare un peso maggior del suo proprio, e tale sarebbe una mole d’acqua eguale alla mole sua propria; e parimente parrà necessario che il solido più grave vada al fondo, come di forza soprabbondante ad alzare una mole d’acqua eguale alla propria, ma inferior di peso. Tuttavia il negozio procede altramente, e benché le conclusioni sien vere, le cagioni però assegnate così, son difettose; né è vero che ’l solido nel sommergersi sollevi e scacci mole d’acqua eguale alla sua propria sommersa, anzi l’acqua sollevata è sempre meno che la parte del solido ch’è sommersa, e tanto più, quanto il vaso, nel quale si contien l’acqua, è più stretto: di modo che non repugna che un solido possa sommergersi tutto sott’acqua senza pure alzarne tanta, che in mole pareggi la decima o la ventesima parte della mole sua; sì come, [p. 71 modifica] all’incontro, picciolissima quantità d’acqua potrà sollevare una grandissima mole solida, ancorché tal solido pesasse assolutamente cento e più volte di essa acqua, tutta volta che la materia di tal solido sia in ispecie men grave dell’acqua; e così una grandissima trave, che, v. g., pesi 1000 libbre, potrà essere alzata e sostenuta da acqua che non ne pesi 50; e questo avverrà quando il momento dell’acqua venga compensato dalla velocità del suo moto.

Ma perché tali cose, profferite così in astratto, hanno qualche difficultà all’esser comprese, è bene che vegniamo a dimostrarle con esempli particulari: e, per agevolezza della dimostrazione, intenderemo, i vasi, ne’ quali s’abbia ad infonder l’acqua e situare i solidi, esser circondati e racchiusi da sponde erette a perpendicolo sopra ’l piano dell’orizzonte, e ’l solido da porsi in tali vasi essere o cilindrico retto o prisma pur retto.

Il che dichiarato e supposto, vengo a dimostrare la verità di quanto ho accennato, formando il seguente teorema.

La mole dell’acqua che si alza nell’immergere un prisma o cilindro solido, o che s’abbassa nell’estrarlo, è minore della mole di esso solido demersa o estratta; e ad essa ha la medesima proporzione, che la superficie dell’acqua circunfusa al solido alla medesima superficie circunfusa insieme con la base del solido. Sia il vaso ABCD, ed in esso l’acqua alta sino al livello EFG, avanti che il prisma solido HIK vi sia immerso; ma dopo che egli è demerso, siasi sollevata l’acqua sino al livello LM: sarà dunque già il solido HIK tutto sott’acqua, e la mole dell’acqua alzata sarà LG, la quale è minore della mole del solido demerso, cioè di HIK, essendo eguale alla sola parte EIK, che si trova sotto il primo livello EFG. Il che è manifesto: perché se si cavasse fuori il solido HIK, l’acqua LG tornerebbe nel luogo occupato dalla mole EIK, dove era contenuta avanti l’immersione del prisma: ed essendo la mole LG eguale alla mole EK, aggiunta comunemente la mole EN, sarà tutta la mole EM, composta della parte del prisma EN e dell’acqua NF, eguale a tutto ’l solido HIK, e però la mole LG alla EM arà la medesima proporzione che alla mole HIK: ma la mole LG alla mole EM ha la medesima proporzione che la superficie LM alla superficie MH: adunque é manifesto, la mole dell’acqua [p. 72 modifica] sollevata LG alla mole del solido demerso HIK aver la medesima proporzione che la superficie LM, che è quella dell’acqua ambiente il solido, a tutta la superficie HM, composta della detta ambiente e della base del prisma HN. Ma se intenderemo, il primo livello dell’acqua essere secondo la superficie HM, ed il prisma più demerso HIK esser poi estratto ed alzalo sino in EAO, e l’acqua essersi abbassata dal primo livello HLM sino in EFG, è manifesto che, essendo il prisma EAO l’istesso che HIK, la parie sua superiore HO sarà eguale all’inferiore EIK, rimossa la parte comune EN; ed, in conseguenza, la mole dell’acqua LG essere eguale alla mole HO, e però minore del solido che si trova fuor dell’acqua, che è tutto ’l prisma EAO, al quale similmente essa mole di acqua abbassata LG ha la medesima proporzione che la superficie dell’acqua circumfusa LM alla medesima superficie circumfusa insieme con la base del prisma AO: il che ha la medesima dimostrazione che l’altro caso di sopra.

E di qui si raccoglie, che la mole dell’acqua che s’alza nell’immersion del solido, o che s’abbassa nell’estrarlo, non è eguale a tutta la mole del solido che si trova demersa o estratta, ma a quella parte solamente, che nell’immersione resta sotto il primo livello dell’acqua, e nell’estrazione riman sopra simil primo livello: che è quello che doveva esser dimostrato. Seguiteremo ora le altre cose.

E prima dimosterremo, che quando in uno de’ vasi sopraddetti, di qualunque larghezza, benché immensa o angusta, sia collocato un tal prisma o cilindro, circondato da acqua, se alzeremo tal solido a perpendicolo, l’acqua circunfusa s’abbasserà; e l’abbassamento dell’acqua all’alzamento del prisma avrà la medesima proporzione, che l’una delle base del prisma alla superficie dell’acqua circunfusa.

Sia nel vaso, qual si è detto, collocato il prisma ACDB, e nel resto dello spazio infusa l’acqua, sino al livello EA; e alzandosi il solido AD, sia trasferito in GM, e l’acqua s’abbassi da EA in NO: dico che la scesa dell’acqua, misurata dalla linea AO, alla salita del prisma, misurata dalla linea GA, ha la stessa proporzione, che la base del solido GH alla superficie dell’acqua NO. Il che è manifesto: perchè la mole del solido GABH, alzata sopra ’l primo livello EAB, è eguale alla mole dell’acqua, che si è abbassata, ENOA: som dunque due prismi [p. 73 modifica] eguali, ENOA e GABH: ma de’ prismi eguali le base rispondono contrariamente alle altezze: adunque, come l’altezza OA all’altezza AG, così è la superficie o base GH alla superficie dell’acqua NO. Quando dunque, per esemplo, una colonna fusse collocata in piede in un grandissimo vivaio pieno d’acqua, o pure in un pozzo, capace di poco più che la mole di detta colonna, nell’alzarla ed estrarla dell’acqua, secondo che la colonna si sollevasse, l’acqua, che la circonda, s’andrebbe abbassando; e l’abbassamento dell’acqua allo spazio dell’alzamento della colonna avrebbe la medesima proporzione, che la grossezza della colonna all’eccesso della larghezza del pozzo o vivaio sopra la grossezza di essa colonna: sì che, se il pozzo fusse l’ottava parte più largo della grossezza della colonna, e la larghezza del vivaio venticinque volte maggiore della medesima grossezza, nell’alzar che si facesse la colonna un braccio, l’acqua del pozzo s’abbasserebbe sette braccia, e quella del vivaio un ventiquattresimo di braccio solamente.

Dimostrato questo, non sarà difficile lo ’ntendere, per la sua vera cagione, come un prisma o cilindro retto, di materia in ispecie men grave dell’acqua, se sarà circondato dall’acqua secondo tutta la sua altezza, non resterà sotto, ma si solleverà, benché l’acqua circunfusa fosse pochissima e di gravità assoluta quanto si voglia inferiore alla gravità di esso prisma. Sia dunque nel vaso CDFB posto il prisma AEFB, men grave in ispecie dell’acqua, e, infusa l’acqua, alzisi sino all’altezza del prisma: dico che lasciato il prisma in sua libertà, si solleverà, sospinto dall’acqua circunfusa CDEA. Imperocché, essendo l’acqua CE più grave in ispecie del solido AF, maggior proporzione avrà il peso assoluto dell’acqua CE al peso assoluto del prisma AF che la mole CE alla mole AF (imperocché la stessa proporzione ha la mole alla mole, che il peso assoluto al peso assoluto, quando le moli sono della medesima gravità in ispecie): ma la mole CE alla mole AF ha la medesima proporzione, che la superficie dell’acqua CA alla superficie o base del prisma AB, la quale è la medesima che la proporzione dell’alzamento del prisma, quando si elevasse, all’abbassamento dell’acqua circunfusa CE: adunque il peso assoluto dell’acqua CE al peso assoluto del prisma AF ha maggior proporzione, che [p. 74 modifica] l’alzamento di essa acqua CE. Il momento, dunque, composto della gravità assoluta dell’acqua CE e della velocità del suo abbassamento, mentre ella fa forza, premendo, di scacciare e di sollevare il solido AF, è maggiore del momento composto del peso assoluto del prisma AF e della tardità del suo alzamento, col qual momento egli contrasta allo scacciamento e forza fattagli dal momento dell’acqua: sarà dunque sollevato il prisma.

Séguita ora che procediamo avanti a dimostrare più particolarmente, sino a quanto saranno tali solidi, men gravi dell’acqua, sollevati, cioè qual parte di loro resterà sommersa, e quale sopra la superficie dell’acqua. Ma prima è necessario dimostrare il seguente lemma.

I pesi assoluti de’ solidi hanno la proporzion composta delle proporzioni delle lor gravità in specie e delle lor moli.

Sieno due solidi A e B: dico, il peso assoluto di A al peso assoluto di B aver la proporzion composta delle proporzioni della gravità in ispecie di A alla gravità in ispecie di B e della mole A alla mole B. Abbia la linea D alla E la medesima proporzione che la gravità in ispecie di A alla gravità in ispecie di B, e la E alla F sia come la mole A alla mole B; è manifesto, la proporzione D ad F esser composta delle proporzioni D ad E ed E ad F: bisogna dunque dimostrare, come D ad F, così essere il peso assoluto di A al peso assoluto di B. Pongasi il solido C eguale ad A in mole, e della medesima gravità in ispecie del solido B: perché dunque A e C sono in mole eguali, il peso assoluto di A al peso assoluto di C avrà la medesima proporzione che la gravità in ispecie di A alla gravità in ispecie di C o di B, che è in ispecie la medesima, cioè che la linea D alla E: e perché C e B sono della medesima gravità in ispecie, sarà come il peso assoluto di C al peso assoluto di B, così la mole C, o vero la mole A, alla mole B, cioè la linea E alla F. Come dunque il peso assoluto di A al peso assoluto di C, così la linea D alla E, e come il peso assoluto di C al peso assoluto di B, così la linea E alla F: adunque, per la proporzione eguale, il peso assoluto di A al peso assoluto di B è come la linea D alla linea F: che bisognava dimostrare.

Passo ora a dimostrar come: Se un cilindro o prisma solido sarà men [p. 75 modifica] grave in ispecie dell’acqua, posto in un vaso come di sopra, di qual si voglia grandezza, e infusa poi l’acqua, resterà il solido senza essere sollevato sin che l’acqua arrivi a tal parte dell’altezza di quello, alla quale tutta l’altezza del prisma abbia la medesima proporzione che la gravità in ispecie dell’acqua alla gravità in ispecie di esso solido; ma infondendo più acqua, il solido si solleverà.

Sia il vaso MLGN, di qualunque grandezza, ed in esso sia collocato il prisma solido DFGE, men grave in ispecie dell’acqua; e qual proporzione ha la gravità in ispecie dell’acqua a quella del prisma, tale abbia l’altezza DF all’altezza FB: dico che, infondendosi acqua sino all’altezza FB, il solido DG non si eleverà, ma ben sarà ridotto all’equilibrio, sì che ogni poco più d’acqua che si aggiunga, si solleverà. Sia dunque infusa l’acqua sino al livello ABC; e perché la gravità in ispecie del solido DG alla gravità in ispecie dell’acqua è come l’altezza BF all’altezza FD, cioè come la mole BG alla mole GD, e la proporzione della mole BG alla mole GD con la proporzione della mole GD alla mole AF compongono la proporzione della mole BG alla mole AF, adunque la mole BG alla mole AF ha la proporzion composta delle proporzioni della gravità in ispecie del solido GD alla gravità in ispecie dell’acqua e della mole GD alla mole AF. Ma le medesime proporzioni, della gravità in ispecie di GD alla gravità in ispecie dell’acqua, e della mole GD alla mole AF, compongono ancora, per lo lemma precedente, la proporzione del peso assoluto del solido DG al peso assoluto della mole dell’acqua AF: adunque, come la mole BG alla mole AF, così è il peso assoluto del solido DG al peso assoluto della mole dell’acqua AF. Ma come la mole BG alla mole AF, così è la base del prisma DE alla superficie dell’acqua AB, e così la scesa dell’acqua AB alla salita del solido DG: adunque la scesa dell’acqua alla salita del prisma ha la medesima proporzione, che il peso assoluto del prisma al peso assoluto dell’acqua; adunque il momento resultante dalla gravità assoluta dell’acqua AF e dalla velocità del moto nell’abbassarsi, col qual momento ella fa forza per cacciare e sollevare il prisma DG, è eguale al momento che risulta dalla gravità assoluta del prisma DG e dalla velocità del moto con la quale, sollevato, ascenderebbe; col qual momento e’ [p. 76 modifica] resiste essere alzato: perché dunque tali momenti sono eguali, si farà l’equilibrio tra l’acqua e ’l solido. Ed è manifesto che, aggiugnendo un poco d’acqua sopra l’altra AF, s’accrescerà gravità e momento, onde il prisma DG sarà superato e alzato, sin che la sola parte BF resti sommersa: che è quello che bisognava dimostrare.

Da quanto si è dimostrato si fa manifesto, come i solidi men gravi in ispecie dell’acqua si sommergono solamente sin tanto, che tanta acqua in mole quanta è la parte del solido sommersa pesi assolutamente quanto tutto il solido. Imperocché, essendosi posto che la gravità in ispecie dell’acqua alla gravità in ispecie del prisma DG abbia la medesima proporzione che l’altezza DF all’altezza FB, cioè che il solido DG al solido GB, dimostrerremo agevolmente, che tanta acqua in mole quanta è la mole del solido BG, pesa assolutamente quanto tutto il solido DG. Imperocché, per lo lemma precedente, il peso assoluto d’una mole d’acqua eguale alla mole BG, al peso assoluto del prisma DG ha la proporzione composta delle proporzioni della mole BG alla mole GD e della gravità in ispecie dell’acqua alla gravità in ispecie del prisma: ma la gravità in ispecie dell’acqua, alla gravità in ispecie del prisma è posta come la mole DG alla mole GB: adunque la gravità assoluta d’una mole d’acqua uguale alla mole BG, alla gravità assoluta del solido GD ha la proporzione composta delle proporzioni della mole BG alla mole GD e della mole DG alla mole GB, che è proporzione d’egualità. La gravità, dunque, assoluta d’una mole d’acqua eguale alla parte della mole del prisma BG, è eguale alla gravità assoluta di tutto ’l solido DG.

Séguita in oltre che, posto un solido men grave dell’acqua in un vaso di qual si voglia grandezza, e circunfusagli attorno acqua sino a tale altezza, che tanta acqua in mole, quanta sia la parte del solido sommersa, pesi assolutamente quanto tutto il solido, egli da tale acqua sarà giustamente sostenuto, e sia l’acqua circunfusa in quantità immensa o pochissima. Imperocchè, se il cilindro o prisma M, men grave dell’acqua, v. g., in proporzione subsesquiterza, sarà posto nel vaso immenso ABCD, e alzatagli attorno l’acqua sino a’ tre quarti della sua altezza, cioè sino al livello AD, sarà sostenuto e equilibrato per appunto: lo stesso gli accadrebbe se il vaso ENSF fusse [p. 77 modifica] piccolissimo,in modo che tra ’l vaso e ’l solido M restasse uno angustissimo spazio, e solamente capace di tanta acqua che né anche fusse la centesima parte della mole M, dalla quale egli similmente sarebbe sollevato e retto, come prima ella fusse alzata sino alli tre quarti dell’altezza del solido. Il che a molti potrebbe, nel primo aspetto, aver sembianza di grandissimo paradosso, e destar concetto che la dimostrazione di tale effetto fosse sofistica e fallace; ma per quelli che per tale la reputassero, c’è la sperienza di mezo, che potrà rendergli certi: ma chi sarà capace di quanto importi la velocità del moto, e come ella a capello ricompensa il difetto e ’l mancamento di gravità, cesserà di maravigliarsi, nel considerare come all’alzamento del solido M pochissimo s’abbassa la gran mole dell’acqua ABCD, ma assaissimo ed in uno stante decresce la piccolissima mole dell’acqua ENSF come prima il solido M si eleva, benché per brevissimo spazio; onde il momento composto della poca gravità assoluta dell’acqua ENSF e della grandissima velocità nello abbassarsi, pareggia la forza e ’l momento che risulta dalla composizione dell’immensa gravità dell’acqua ABCD con la grandissima tardità nell’abbassarsi, avvegna che, nell’alzarsi il solido M, l’abbassamento della pochissima acqua ES si muove tanto più velocemente che la grandissima mole dell’acqua AC, quanto appunto questa è più di quella. Il che dimostrerremo così.

Nel sollevarsi il solido M, l’alzamento suo all’abbassamento dell’acqua ENSF circunfusa ha la medesima proporzione, che la superficie di essa acqua alla superficie o base di esso solido M; la qual base alla superficie dell’acqua AD ha la proporzion medesima, che l’abbassamento dell’acqua AC all’alzamento del solido M; adunque, per la proporzion perturbata, nell’alzarsi il medesimo solido M, l’abbassamento dell’acqua ABCD all’abbassamento dell’acqua ENSF ha la medesima proporzione, che la superficie dell’acqua EF alla superficie dell’acqua AD, cioè che tutta la mole dell’acqua ENSF a tutta la mole ABCD, essendo egualmente alte. È manifesto, dunque, come nel cacciamento e alzamento del solido M l’acqua ENSF supera in velocità di moto l’acqua ABCD di tanto, di quanto ella vien superata da quella in quantità: onde i momenti loro in tale operazione son ragguagliati.

E per amplissima confermazione e più chiara esplicazione di questo medesimo, considerisi la presente figura (e, s’io non m’inganno, potrà [p. 78 modifica] servire per cavar d’errore alcuni meccanici prattici, che sopra un falso fondamento tentano talora imprese impossibili), nella quale al vaso larghissimo EIDF, vien continuata l’angustissima canna ICAB, ed intendasi in essi infusa l’acqua sino al livello LGH; la quale in questo stato si quieterà, non senza meraviglia di alcuno, che non capirà così subito come esser possa, che il grave carico della gran mole dell’acqua GD, premendo abbasso, non sollevi e scacci la piccola quantità dell’altra contenuta dentro alla canna CL, dalla quale gli vien contesa ed impedita la scesa. Ma tal meraviglia cesserà, se noi cominceremo a fingere l’acqua GD essersi abbassata solamente sino a QO, e considereremo poi ciò che averà fatto l’acqua CL. la quale, per dar luogo all’altra che si è scemata dal livello GH sino al livello QO, doverà per necessità essersi nell’istesso tempo alzata dal livello L sino in AB, ed esser la salita LB tanto maggiore della scesa GQ, quant’è l’ampiezza del vaso GD maggiore della larghezza della canna LC, che in somma è quanto l’acqua GD è più della LC. Ma essendo che il momento della velocità del moto in un mobile compensa quello della gravità di un altro, qual meraviglia sarà se la velocissima salita della poca acqua CL resisterà alla tardissima scesa della molta GD?

Accade, adunque, in questa operazione lo stesso a capello che nella adera, nella quale un peso di due libre ne contrappeserà un altro di 200, tuttavolta che nel tempo medesimo quello si dovesse muovere per ispazio 100 volte maggiore che questo; il che accade quando l’un braccio della libra sia più cento volte lungo dell’altro. Cessi per tanto la falsa opinione in quelli che stimavano che un navilio meglio e più agevolmente fosse sostenuto in grandissima copia d’acqua che in minor quantità (fu ciò creduto da Aristotile ne’ Problemi, alla Sezion 23, Probl. 2), essendo, all’incontro, vero che è possibile che una nave così ben galleggi in dieci botti di acqua come nell’oceano.

Ma, seguitando la nostra materia, dico che da quanto si è sin qui dimostrato possiamo intendere, come uno de’ soprannominati solidi, quando fusse più grave in ispecie dell’acqua, non potrebbe mai da qualsivoglia quantità di quella esser sostenuto. Imperò che, avendo noi veduto, come il momento, col quale un tal solido grave in ispecie come l’acqua contrasta col momento di qualunque mole d’acqua, è potente a ritenerlo sino alla total sommersione, senza che egli si [p. 79 modifica] elevi; resta manifesto, che molto meno potrà dall’acqua esser sollevato, quando e’ sia più di quella grave in ispecie: onde, infondendosi acqua sino alla total sua sommersione, resterà ancora in fondo, e con tanta gravità e renitenza all’esser sollevato, quanto è l’eccesso del suo peso assoluto sopra il peso assoluto d’una mole a sé eguale fatta d’acqua o di materia in ispecie egualmente grave come l’acqua. E benché s’aggiugnesse poi grandissima quantità d’acqua sopra il livello di quella che pareggia l’altezza del solido, non però s’accresce la pressione o aggravamento delle parti circonfuse al detto solido, per la quale maggior pressione egli avesse ad esser cacciato; perché il contrasto non gli vien fatto se non da quelle parti dell’acqua, le quali al moto d’esso solido esse ancora si muovono, e queste son quelle solamente che son comprese tra le due superficie equidistanti all’orizzonte e fra di loro parallele, le quali comprendon l’altezza del solido immerso nell’acqua.

Parmi d’aver sin qui a bastanza dichiarata e aperta la strada alla contemplazione della vera, intrinseca e propria cagione de’ diversi movimenti e della quiete de’ diversi corpi solidi ne’ diversi mezi e in particolare nell’acqua, mostrando come in effetto il tutto depende dagli scambievoli eccessi della gravità de’ mobili e de’ mezi, e, quello che sommamente importava, rimovendo l’instanza ch’a molti avrebbe potuto per avventura apportar gran dubbio e difficultà intorn’alla verità della mia conclusione, cioè come, stante che l’eccesso della gravità dell’acqua sopra la gravità del solido, che in essa si pone, sia cagion del suo galleggiare e sollevarsi dal fondo alla superficie, possa una quantità d’acqua, che pesi meno di dieci libre, sollevare un solido che pesi più di cento: dove abbiamo dimostrato, come basta che tali differenze si trovino tra le gravità in ispecie de’ mezi e de’ mobili, e sien poi le gravità particolari e assolute quali esser si vogliano; in guisa tale che un solido, purch’ei sia in ispezie men grave dell’acqua, benché poi di peso assoluto fosse mille libre, potrà da dieci libre d’acqua, e meno, essere innalzato; e, all’opposito, altro solido, purché in ispecie sia più grave dell’acqua, benché di peso assoluto non fosse più d’una libbra, non potrà da tutto ’l mare esser sollevato dal fondo o sostenuto. Questo mi basta, per quanto appartiene al presente negozio, avere co’ sopra dichiarati esempli scoperto e dimostrato, senza estender tal materia più oltre e, come [p. 80 modifica] si potrebbe, in lungo trattato; anzi, se non fosse stata la necessità di risolvere il sopra posto dubbio, mi sarei fermato in quello solamente che da Archimede vien dimostrato nel primo libro Delle cose che stanno sopra l’acqua, dov’in universale si concludono e stabiliscon le medesime conclusioni, cioè che i solidi men gravi dell’acqua soprannuotano, i più gravi vanno al fondo, gli egualmente gravi stanno indifferentemente in ogni luogo, purché stieno totalmente sotto acqua.

Ma perché tal dottrina d’Archimede, vista, trascritta ed esaminata dal Sig. Francesco Buonamico nel quinto libro Del moto, al cap. 29, e poi dal medesimo confutata, potrebbe dall’autorità di filosofo così celebre e famoso esser resa dubbia e sospetta di falsità; ho giudicato necessario ’l difenderla, se sarò potente a farlo, e purgare Archimede da quelle colpe delle quali par ch’e’ venga imputato.

Lascia il Buonamico la dottrina d’Archimede, prima, come non concorde con l’opinion d’Aristotile; soggiugnendo, parergli cosa ammiranda che l’acqua debba superar la terra in gravità, vedendosi, in contrario, crescer la gravità nell’acqua mediante la participazion della terra. Soggiugne appresso, non restar soddisfatto delle ragioni d’Archimede, per non poter con quella dottrina assegnar la cagione, donde avvenga che un legno e un vaso, che per altro stia a galla nell’acqua, vada poi al fondo se s’empierà d’acqua; che, per essere il peso dell’acqua, che in esso si contiene, eguale all’altr’acqua, dovrebbe fermarsi al sommo nella superficie; tuttavia si vede andare in fondo. Di più aggiugne che Aristotile chiaramente ha confutato gli antichi, che dicevano i corpi leggieri esser mossi all’in su, scacciati dalla ’mpulsione dell’ambiente più grave; il che se fusse, parrebbe che di necessità ne seguisse, che tutti i corpi naturali fussero di sua natura gravi e niuno leggiere, perché ’l medesimo accadrebbe ancora dell’aria e del fuoco, posti nel fondo dell’acqua. E benché Aristotile conceda la pulsione negli elementi, per la quale la terra si riduce in figura sferica, non però, per suo parere, è tale che ella possa rimuovere i corpi gravi dal luogo suo naturale; anzi che più tosto gli manda verso il centro, al quale (come egli alquanto oscuramente séguita di dire) principalmente si muove l’acqua, se già ella non incontra chi gli resista e per la sua gravità non si lasci scacciare dal luogo suo, nel qual caso, se non direttamente, al meno come [p. 81 modifica] si può, conseguisce il centro: ma al tutto per accidente i leggieri per tale impulsione vengono ad alto, ma ciò hanno per lor natura, come anche lo stare a galla. Conclude finalmente di convenir con Archimede nelle conclusioni, ma non nelle cause, le quali egli vuol riferire alla facile o difficile divisione del mezo, e al dominio degli elementi: sì che quando il mobile supera la podestà del mezo, come, per esempio, il piombo la continuità dell’acqua, si moverà per quella; altramente, no.

Questo è quello che io ho potuto raccorre, esser prodotto contro Archimede dal Sig. Buonamico: il quale non s’è curato d’atterrare i principii e le supposizioni d’Archimede, che pure è forza che sieno falsi, se falsa è la dottrina da quelli dependente; ma s’è contentato di produrre alcuni inconvenienti e alcune repugnanze all’opinione e alla dottrina d’Aristotile. Alle quali obbiezioni rispondendo dico, prima, che l’essere semplicemente la dottrina d’Archimede discorde da quella d’Aristotile, non dovrebbe muovere alcuno ad averla per sospetta, non constando cagion veruna per la quale l’autorità di questo debba essere anteposta all’autorità di quello. Ma perché, dove s’hanno i decreti della natura, indifferentemente esposti a gli occhi dello intelletto di ciascheduno, l’autorità di questo e di quello perde ogni autorità nel persuadere, restando la podestà assoluta alla ragione; però passo a quello che vien nel secondo luogo prodotto, come assurdo conseguente alla dottrina d’Archimede, cioè che l’acqua dovesse esser più grave della terra. Ma io veramente non trovo che Archimede abbia detta tal cosa, né che ella si possa dedurre dalle sue conclusioni; e quando ciò mi fusse manifestato, credo assolutamente che io lascerei la sua dottrina, come falsissima. Forse è appoggiata questa deduzione del Buonamico sopra quello che egli soggiugne del vaso, il quale galleggia sin che sarà vòto d’acqua, ma poi, ripieno, va al fondo; e intendendo d’un vaso di terra, inferisce contro Archimede così: Tu di’ che i solidi che galleggiano, sono men gravi dell’acqua; questo vaso di terra galleggia; adunque tal vaso è men grave dell’acqua, e però la terra è men grave dell’acqua. Se tale è la illazione, io facilmente rispondo, concedendo che tal vaso sia men grave dell’acqua, e negando l’altra conseguenza, cioè che la terra sia men grave dell’acqua. Il vaso che soprannuota, occupa nell’acqua non solamente un luogo eguale alla mole della terra della quale egli [p. 82 modifica] è formato, ma eguale alla terra e all’aria insieme nella sua concavità contenuta; e se una tal mole, composta di terra e d’aria, sarà men grave d’altrettanta acqua, soprannoterà, e sarà conforme alla dottrina d’Archimede: ma se poi, rimovendo l’aria, si riempierà il vaso d’acqua, sì che il solido posto nell’acqua non sia altro che terra, né occupi altro luogo che quello che dalla sola terra viene ingombrato, allora egli andrà al fondo, per esser la terra più grave dell’acqua; e ciò concorda benissimo con la mente d’Archimede. Ecco il medesimo effetto dichiarato con altra esperienza simile. Nel volere spignere al fondo una boccia di vetro mentre è ripiena d’aria, si sente grandissima renitenza, perché non è il solo vetro quello che si spigne sotto acqua, ma, insieme col vetro, una gran mole d’aria, e tale che chi prendesse tanta acqua quanta è la mole del vetro e dell’aria in esso contenuta, avrebbe un peso molto maggiore che quello della boccia e della sua aria; e però non si sommergerà senza gran violenza: ma se si metterà nell’acqua il vetro solamente, che sarà quando la boccia s’empierà d’acqua, allora il vetro discenderà al fondo, come superiore in gravità all’acqua.

Tornando, dunque, al primo proposito, dico che la terra è più grave dell’acqua, e che però un solido di terra va al fondo; ma può ben farsi un composto di terra e d’aria, il quale sia men grave d’altrettanta mole di acqua, e questo resterà a galla: e sarà l’una e l’altra esperienza molto ben concorde alla dottrina d’Archimede. Ma perché ciò mi pare che non abbia difficultà, io non voglio affermativamente dire che il Sig. Buonamico volesse da un simil discorso opporre ad Archimede l’assurdo, dello ’nferirsi dalla sua dottrina che la terra fusse men grave dell’acqua; benché io veramente non sappia immaginarmi, quale altro accidente lo possa avere indotto a ciò.

Forse tal problema (per mio creder favoloso), letto dal Sig. Buonamico in altro autore, dal quale per avventura fu attribuito per proprietà singolare a qualche acqua particolare, viene ora usato con doppio errore in confutare Archimede; poiché egli non dice tal cosa, né da chi la disse fu asserita dell’acqua del comune elemento.

Era la terza difficultà nella dottrina d’Archimede il non si poter render ragione, onde avvenga che un legno e un vaso pur di legno, che per altro galleggia, vada al fondo se si riempierà d’acqua. Ha creduto il signor Buonamico, che un vaso di legno, e di legno che [p. 83 modifica] per sua natura stia a galla, vada poi al fondo come prima e’ s’empia d’acqua; di che egli nel capitolo seguente, che è il 30 del quinto libro, copiosamente discorre: ma io, parlando sempre senza diminuzione della sua singolar dottrina, ardirò, per difesa d’Archimede, di negargli tale esperienza, essendo certo che un legno il quale, per sua natura, non va al fondo nell’acqua, non v’andrà altresì incavato e ridotto in figura di qual si voglia vaso, e poi empiuto d’acqua. E chi vorrà vederne prontamente l’esperienza in qualche altra materia trattabile e che agevolmente si riduca in ogni figura, potrà pigliar della cera pura e, facendone prima una palla o altra figura solida, aggiugnervi tanto di piombo che a pena la conduca al fondo, sì che un grano di manco non bastasse per farla sommergere; perché, facendola poi in forma d’un vaso, e empiendolo d’acqua, troverrà che senza il medesimo piombo non andrà in fondo, e che col medesimo piombo discenderà con molta tardità, ed, in somma, s’accerterà che l’acqua contenuta non gli apporta alterazione alcuna. Io non dico già che non si possano, di legno che per sua natura galleggi, far barche, le quali poi, piene d’acqua, si sommergano; ma ciò non avverrà per gravezza che gli sia accresciuta dall’acqua, ma sì bene da’ chiodi e altri ferramenti, sì che non più s’avrà un corpo men grave dell’acqua, ma un composto di ferro e di legno, più ponderoso d’altrettanta mole d’acqua. Cessi per tanto il Sig. Buonamico di voler render ragioni d’un effetto che non è: anzi, se l’andare al fondo il vaso di legno, quando sia ripien d’acqua, poteva render dubbia la dottrina d’Archimede, secondo la quale egli non vi dovrebbe andare, e all’incontro quadra e si confonda con la dottrina peripatetica, poiché ella accomodatamente assegna ragione che tal vaso debbe, quando sia pieno d’acqua, sommergersi; convertendo il discorso all’opposito, potremo con sicurezza dire, la dottrina d’Archimede esser vera, poiché acconciamente ella s’adatta alle esperienze vere, e dubbia l’altra, le cui deduzioni s’accomodano a false conclusioni. Quanto poi all’altro punto accennato in questa medesima instanza, dove pare che il Buonamico intenda il medesimo non solamente d’un legno figurato in forma di vaso ma anche d’un legno massiccio, che ripieno, cioè, come io credo che egli voglia dire, inzuppato e pregno d’acqua, vada finalmente al fondo; ciò accade d’alcuni legni porosi, li quali, mentre hanno le porosità ripiene d’aria o d’altra materia men grave dell’ [p. 84 modifica] acqua, sono moli in ispecie manco gravi di essa acqua, sì come è quella boccia di vetro mentre è piena d’aria; ma quando, partendosi tal materia leggiera, succede nelle dette porosità e cavernosità l’acqua, può benissimo essere che allora tal composto resti più grave dell’acqua, nel modo che, partendosi l’aria dalla boccia di vetro e succedendovi l’acqua, ne risulta un composto d’acqua e di vetro, più grave d’altrettanta mole d’acqua; ma l’eccesso della sua gravità è nella materia del vetro, e non nell’acqua, la quale non è più grave di sé stessa: così quel che resta del legno, partendosi l’aria dalle sue concavità, se sarà più grave in ispecie dell’acqua, ripiene che saranno le sue porosità d’acqua, s’avrà un composto d’acqua e di legno, più grave dell’acqua, ma non in virtù dell’acqua ricevuta nelle porosità, ma di quella materia del legno che resta, partita che sia l’aria; e reso tale, andrà, conforme alla dottrina d’Archimede, al fondo, sì come prima, secondo la medesima dottrina, galleggiava.

A quello finalmente che viene opposto nel quarto luogo, cioè che già sieno stati da Aristotile confutati gli antichi, i quali, negando la leggerezza positiva e assoluta e stimando veramente tutti i corpi esser gravi, dicevano, quello che si muove in su essere spinto dall’ambiente, e per tanto che anche la dottrina d’Archimede, come a tale opinione aderente, resti convinta e confutata; rispondo, primieramente, parermi che ’l Sig. Buonamico imponga ad Archimede e deduca dal suo detto più di quello ch’egli ha proposto e che dalle sue proposizioni si può dedurre: avvegnaché Archimede né neghi né ammetta la leggerezza positiva, né pur ne tratti, onde molto meno si debbe inferire ch’egli abbia negato che ella possa esser cagione e principio del moto all’insù del fuoco o d’altri corpi leggieri; ma solamente, avendo dimostrato come i corpi solidi più gravi dell’acqua discendano in essa secondo l’eccesso della gravità loro sopra la gravità di quella, dimostra parimente come i men gravi ascendano nella medesima acqua secondo l’eccesso della gravità di essa sopra la gravità loro; onde il più che si possa raccorre dalle dimostrazion d’Archimede è che, sì come l’eccesso della gravità del mobile sopra la gravità dell’acqua è cagion del suo discendere in essa, così l’eccesso della gravità dell’acqua sopra quella del mobile è bastante a fare che egli non discenda, anzi venga a galla, non ricercando se del muoversi all’in su sia o non sia altra cagion contraria alla gravità. [p. 85 modifica]

Né discorre meno acconciamente Archimede d’alcuno che dicesse: Se il vento australe ferirà la barca con maggiore impeto che non è la violenza con la quale il corso del fiume la traporta verso mezzogiorno, sarà il movimento di quella verso tramontana; ma se l’impeto dell’acqua prevarrà a quello del vento, il moto suo sarà verso mezzogiorno. Il discorso è ottimo, e immeritamente sarebbe ripreso da chi gli opponesse dicendo: Tu malamente adduci, per cagion del movimento della barca verso mezzogiorno, l’impeto del corso dell’acqua, eccedente la forza del vento australe; malamente, dico, perché c’è la forza del vento borea, contrario all’austro, potente a spinger la barca verso mezogiorno. Tale obbiezione sarebbe superflua: perché quello che adduce, per cagion del moto, il corso dell’acqua, non nega che il vento contrario all’ostro possa far lo stesso effetto, ma solamente afferma che, prevalendo l’impeto dell’acqua alla forza d’austro, la barca si moverà verso mezogiorno; e dice cosa vera. E così appunto, quando Archimede dice che, prevalendo la gravità dell’acqua a quella per la quale il mobile va a basso, tal mobile vien sollevato dal fondo alla superficie, induce cagion verissima di tale accidente, né afferma o nega che sia o non sia una virtù contraria alla gravità, detta da alcuni leggerezza, potente ella ancora a muovere alcuni corpi all’insù.

Sieno dunque indirizzate l’armi del Sig. Buonamico contra Platone e altri antichi, li quali, negando totalmente la levità e ponendo tutti li corpi esser gravi, dicevano il movimento all’insù esser fatto non da principio intrinseco del mobile, ma solamente dallo scacciamento del mezo; e resti Archimede con la sua dottrina illeso, poi che egli non dà cagion d’essere impugnato. Ma quando questa scusa addotta in difesa d’Archimede paresse ad alcuno scarsa per liberarlo dalle obbiezioni e argomenti fatti da Aristotile contro a Platone e agli altri antichi, come che i medesimi militassero ancora contro ad Archimede adducente lo scacciamento dell’acqua come cagione del tornare a galla i solidi men gravi di lei, io non diffiderei di poter sostener per verissima la sentenza di Platone e di quegli altri, li quali negano assolutamente la leggerezza, e affermano ne’ corpi elementari non essere altro principio intrinseco di movimento se non verso il centro della terra, né essere altra cagione del movimento all’insù (intendendo di quello che ha sembianza di moto naturale) fuori che lo scacciamento del mezo fluido ed eccedente la gravità del mobile; [p. 86 modifica] e alle ragioni in contrario d’Aristotile credo che si possa pienamente soddisfare, e mi sforzerei di farlo, quando fusse totalmente necessario nella presente materia, o non fusse troppo lunga digressione in questo breve trattato. Dirò solamente che, se in alcuno de’ nostri corpi elementari fosse principio intrinseco e inclinazion naturale di fuggire il centro della terra e muoversi verso il concavo della Luna, tali corpi senza dubbio più velocemente ascenderebbono per que’ mezi che meno contrastano alla velocità del mobile; e questi sono i più tenui e sottili, quale è, per esempio, l’aria in comparazion dell’acqua, provando noi tutto ’l giorno che molto più speditamente moviamo con velocità una mano o una tavola trasversalmente in quella che in questa: tutta via non si troverrà mai corpo alcuno il quale non ascenda molto più velocemente nell’acqua che nell’aria; anzi, de’ corpi che noi veggiamo continuamente ascendere con velocità nell’acqua, niuno è che, pervenuto a’ confin dell’aria, non perda totalmente il moto; insino all’aria stessa, la quale, sormontando velocemente per l’acqua, giunta che è alla sua regione lascia ogn’impeto e lentamente con l’altra si confonde. E avvegnaché l’esperienza ci mostri che i corpi di mano in mano men gravi più velocemente ascendon nell’acqua, non si potrà dubitare che l’esalazioni ignee più velocemente ascendano per l’acqua che non fa l’aria: la quale aria si vede per esperienza ascender più velocemente per l’acqua, che l’esalazioni ignee per l’aria: adunque di necessità si conclude, che le medesime esalazioni assai più velocemente ascendano per l’acqua che per l’aria, e che, in conseguenza, elle sieno mosse dal discacciamento del mezo ambiente, e non da principio intrinseco, che sia in loro, di fuggire il centro al qual tendono gli altri corpi gravi.

A quello che per ultima conclusione produce il Sig. Buonamico, di voler ridurre il discendere o no all’agevole e alla difficil division del mezo e al dominio de gli elementi, rispondo, quanto alla prima parte, ciò non potere in modo alcuno aver ragion di causa, avvenga che in niuno de’ mezzi fluidi, come l’aria, l’acqua e altri umidi, sia resistenza alcuna alla divisione, ma tutti da ogni minima forza son divisi e penetrati, come di sotto dimostrerò; sì che di tale resistenza alla divisione non può essere azione alcuna, poi che ella stessa non è. Quanto all’altra parte, dico che tanto è ’l considerar ne’ mobili il predominio degli elementi, quanto l’ecceso o ’l mancamento di [p. 87 modifica] gravità in relazione al mezo, perché ’n tale azione gli elementi non operano se non in quanto gravi o leggieri; e però tanto è ’l dire, che il legno dell’abeto non va al fondo perché è a predominio aereo, quant’è ’l dire perché è men grave dell’acqua: anzi, pur la cagione immediata è l’esser men grave dell’acqua, e l’essere a predominio aereo è cagion della minor gravità; però chi adduce per cagione il predominio dell’elemento, apporta la causa della causa, e non la causa prossima e immediata. Or chi non sa che la vera causa è la immediata, e non la mediata? In oltre, quello che allega la gravità, apporta una causa notissima al senso, perché molto agevolmente potremo accertarci se l’ebano, per esemplo, e l’abeto son più o men gravi dell’acqua: ma s’ei sieno terrei o aerei a predominio, chi ce lo manifesterà? certo niun’altra esperienza meglio, che ’l vedere se e’ galleggiano o vanno al fondo. Tal che, chi non sa che il tal solido galleggia se non quand’e’ sappia ch’egli è a predominio aereo, non sa ch’e’ galleggi se non quando lo vede galleggiare: perché, allora sa ch’e’ galleggia, quand’e’ sa ch’egli è aereo a predominio; ma non sa ch’e’ sia aereo a predominio, se non quando e’ lo vede galleggiare; adunque, e’ non sa ch’e’ galleggi, se non dopo l’averlo veduto stare a galla.

Non disprezziam dunque quei civanzi, pur troppo tenui, che il discorso, dopo qualche contemplazione, apporta alla nostra intelligenza; e accettiamo da Archimede il sapere, che allora qualunque corpo solido andrà al fondo nell’acqua, quand’egli sarà in ispecie più grave di quella, e che s’ei sarà men grave, di necessità galleggerà, e che indifferentemente resterebbe in ogni luogo dentro all’acqua, se la gravità sua fusse totalmente simile a quella dell’acqua.

Esplicate e stabilite queste cose, io vengo a considerare ciò che abbia, circa questi movimenti e quiete, che far la diversità di figura data ad esso mobile; e torno ad affermare:

Che la diversità di figura data a questo e a quel solido non può esser cagione in modo alcuno dell’andare egli, o non andare, assolutamente al fondo o a galla; sì che un solido che figurato, per esemplo, di figura sferica va al fondo, o viene a galla, nell’acqua, dico che, figurato di qualunque altra figura, il medesimo nella medesima acqua andrà o tornerà dal fondo, né gli potrà tal suo moto dall’ampiezza o da altra mutazion di figura esser vietato e tolto. [p. 88 modifica]

Può ben l’ampiezza della figura ritardar la velocità, tanto della scesa, quanto della salita, e più e più secondo che tal figura si ridurrà a maggior larghezza e sottigliezza: ma ch’ella possa ridursi a tale, ch’ella totalmente vieti il più muoversi quella stessa materia nella medesima acqua, ciò stimo essere impossibile. In questo ho trovato gran contradittori, li quali, producendo alcune esperienze, e in particolare una sottile assicella d’ebano e una palla del medesimo legno, e mostrando come la palla nell’acqua discendeva al fondo, e l’assicella, posata leggiermente su l’acqua, non si sommergeva ma si fermava, hanno stimato, e con l’autorità d’Aristotile confermatisi nella credenza loro, che di tal quiete ne sia veramente cagione la larghezza della figura, inabile, per lo suo poco peso, a fendere e penetrar la resistenza della crassizie dell’acqua; la qual resistenza prontamente vien superata dall’altra figura rotonda.

Questo è il punto principale della presente quistione; nel quale m’ingegnerò di far manifesto d’essermi appreso alla parte vera.

Però, cominciando a tentar d’investigare con l’esame d’esquisita esperienza come veramente la figura non altera punto l’andare o ’l non andare al fondo i medesimi solidi, e avendo già dimostrato come la maggiore o minor gravità del solido, in relazione alla gravità del mezo, è cagione del discendere o ascendere; qualunque volta noi vogliamo far prova di ciò che operi circa questo effetto la diversità della figura, sarà necessario far l’esperienza con materie nelle quali la varietà delle gravezze non abbia luogo, perché, servendoci di materie che tra di lor possano esser di varie gravità in ispecie, sempre resteremo con ragione ambigui, incontrando varietà nell’effetto del discendere o ascendere, se tal diversità derivi veramente dalla sol figura, o pur dalla diversa gravità ancora. A ciò troveremo rimedio col prendere una sola materia, la qual sia trattabile, e atta a ridursi agevolmente in ogni sorta di figura. In oltre sarà ottimo espediente prendere una sorta di materia similissima in gravità all’acqua, perché tal materia, in quanto appartiene alla gravità, è indifferente al discendere e all’ascendere; onde speditissimamente si conoscerà qualunque piccola diversità potesse derivar dalla mutazione delle figure.

Ora, per ciò fare, attissima è la cera, la quale, oltr’al non ricever sensibile alterazione dallo ’mpregnarsi d’acqua, è trattabile, e [p. 89 modifica] agevolissimamente il medesimo pezzo si riduce in ogni figura; ed essendo in ispecie pochissimo manco grave dell’acqua, col mescolarvi dentro un poco di limatura di piombo si riduce in gravità similissima a quella.

Preparata una tal materia, e fattone, per esemplo, una palla grande quanto una melarancia, o più, e fattala tanto grave ch’ella stia al fondo, ma così leggiermente che, detrattole un solo grano di piombo, venga a galla, e aggiuntolo torni al fondo; riducasi poi la medesima cera in una sottilissima e larghissima falda, e tornisi a far la medesima esperienza: vedrassi che ella, posta nel fondo, con quel grano di piombo resterà a basso; detratto il grano, s’eleverà sino alla superficie; aggiuntolo di nuovo, discenderà al fondo. E questo medesimo effetto accadrà sempre in tutte le sorte di figure, tanto regolari quanto irregolari, né mai se ne troverrà alcuna, la quale venga a galla se non rimosso il grano del piombo, o cali al fondo se non aggiuntovelo; e, in somma, circa l’andare o non andare al fondo non si scorgerà diversità alcuna, ma sì bene circa ’l veloce e ’l tardo, perché le figure più larghe e distese si moveranno più lentamente, tanto nel calare al fondo quanto nel sormontare, e l’altre figure più strette o raccolte, più velocemente. Ora io non so qual diversità si debba attendere dalle varie figure, se le diversissime fra di sé non operano quanto fa un piccolissimo grano di piombo, levato o posto.

Parmi di sentire alcuno degli avversari muover dubbio sopra la da me prodotta esperienza, e mettermi primieramente in considerazione che la figura, come figura semplicemente e separata dalla materia, non opera cosa alcuna, ma bisogna che ella sia congiunta con la materia, e, di più, non con ogni materia, ma con quelle solamente con le quali ella può eseguire l’operazione desiderata: in quella guisa che vedremo per esperienza esser vero, che l’angolo acuto e sottile è più atto al tagliare che l’ottuso, tuttavia però che l’uno e l’altro saranno congiunti con materia atta a tagliare, come, v. g., col ferro; perciocché un coltello di taglio acuto e sottile taglia benissimo il pane e ’l legno, il che non farà se ’l taglio sarà ottuso e grosso; ma chi volesse in cambio di ferro pigliar cera, e formarne un coltello, veramente non potrebbe, in tal materia, riconoscer quale effetto faccia il taglio acuto, e qual l’ottuso, perché né l’uno né l’altro [p. 90 modifica] taglierebbe, non essendo la cera, per la sua mollizie, atta a superar la durezza del legno e del pane. E però, applicando simil discorso al proposito nostro, diranno che la figura diversa mosterrà diversità d’effetti circa l’andare o non andare al fondo, ma non congiunta con qualsivoglia materia, ma solamente con quelle materie che, per loro gravità, sono atte a superare la resistenza della viscosità dell’acqua: onde chi pigliasse per materia il suvero o altro leggerissimo legno, inabile, per la sua leggerezza, a superar la resistenza della crassizie dell’acqua, e di tal materia formasse solidi di diverse figure, indarno tenterebbe di veder quello che operi la figura circa il discendere o non discendere, perché tutte resterebbero a galla; e ciò non per proprietà di questa figura o di quella, ma per la debolezza della materia, manchevole di tanta gravità quanta si ricerca per superare e vincer la densità o crassizie dell’acqua. Bisogna dunque, se noi vogliamo veder quello che operi la diversità della figura, elegger prima una materia per sua natura atta a penetrar la crassizie dell’acqua: e per tale effetto è paruta loro opportuna una materia, la qual, prontamente ridotta in figura sferica, vada al fondo; ed hanno eletto l’ebano, del quale facendo poi una piccola assicella, e sottile come è la grossezza d’una veccia, hanno fatto vedere come questa, posata sopra la superficie dell’acqua, resta senza discendere al fondo; e facendo, all’incontro, del medesimo legno una palla non minore d’una nocciuola, mostrano che questa non resta a galla, ma discende. Dalla quale esperienza pare a loro di poter francamente concludere, che la larghezza della figura nella tavoletta piana sia cagione del non discendere ella al basso, avvegnaché una palla della medesima materia, non differente dalla tavoletta in altro che nella figura, va nella medesima acqua al fondo. Il discorso e l’esperienza hanno veramente tanto del probabile e del verisimile, che maraviglia non sarebbe se molti, persuasi da una certa prima apparenza, gli prestassero il loro assenso: tuttavia io credo di potere scoprire come non mancano di fallacia.

Cominciando, adunque, ad esaminare a parte a parte quanto è stato prodotto, dico che le figure, come semplici figure, non solamente non operano nelle cose naturali, ma né anche si ritrovano dalla sustanza corporea separate, né io le ho mai proposte denudate della materia sensibile; sì come anche liberamente ammetto, che nel voler [p. 91 modifica] noi esaminare quali sieno le diversità degli accidenti dependenti dalla varietà delle figure, sia necessario applicarle a materie, che non impediscano l’operazioni varie di esse varie figure; e ammetto e concedo, che malamente farei quando io volessi esperimentare quello che importi l’acutezza del taglio con un coltello di cera applicandolo a tagliare una quercia, perché non è acutezza alcuna che, introdotta nella cera, tagli il legno durissimo. Ma non sarebbe già prodotta a sproposito l’esperienza d’un tal coltello per tagliare il latte rappreso o altra simil materia molto cedente: anzi, in materia simile, è più accomodata la cera, a conoscer le diversità dependenti da angoli più o meno acuti, che l’acciaio, posciaché il latte indifferentemente si taglia con un rasoio e con un coltello di taglio ottuso. Bisogna, dunque, non solo aver riguardo alla durezza, solidità o gravità de’ corpi che sotto diverse figure hanno a dividere e penetrare alcune materie; ma bisogna por mente altresì alle resistenze delle materie da esser divise e penetrate. Ma perché io, nel far l’esperienza concernente alla nostra contesa, ho eletta materia la qual penetra la resistenza dell’acqua e in tutte le figure discende al fondo, non possono gli avversari appormi difetto alcuno: anzi, tanto ho io proposto modo più esquisito del loro, quanto che ho rimosse tutte l’altre cagioni dell’andare o non andare al fondo, e ritenuta la sola e pura varietà di figure, mostrando che le medesime figure tutte con la sola alterazione d’un grano di peso discendono, il qual rimosso, tornano a sormontare a galla. Non è vero, dunque (ripigliando l’esemplo da loro indotto), ch’io abbia posto di volere esperimentar l’efficacia dell’acutezza nel tagliare con materie impotenti a tagliare; anzi, con materie proporzionate al nostro bisogno, poiché non sono sottoposte ad altre varietà, che a quella sola che depende dalla figura più o meno acuta.

Ma procediamo un poco più avanti: e notisi come veramente senza veruna necessità viene introdotta la considerazione, che dicono doversi avere, intorno all’elezione della materia, la quale sia proporzionata per far la nostra esperienza; dichiarando con l’esemplo del tagliare che, sì come l’acutezza non basta a tagliare, se non quando è in materia dura e atta a superare la resistenza del legno o d’altro che di tagliare intendiamo, così l’attitudine al discendere o non discender nell’acqua si dee, e si può, solamente riconoscere in quelle [p. 92 modifica] materie, che son potenti a superar la renitenza dell’acqua e vincer la sua crassizie. Sopra di che io dico, esser ben necessaria la distinzione ed elezione più di questa che di quella materia in cui s’imprimano le figure per tagliare o penetrare questo e quel corpo, secondo che la solidità o durezza d’essi corpi sarà maggiore o minore: ma poi soggiungo che tal distinzione elezione e cautela sarebbe superflua ed inutile, se il corpo da esser tagliato o penetrato non avesse resistenza alcuna, né contendesse punto al taglio o alla penetrazione; e quando i coltelli dovessero adoperarsi per tagliar la nebbia o il fumo, egualmente ci servirebbono tanto di carta quanto d’acciaio damaschino. E così, per non aver l’acqua resistenza alcuna all’esser penetrata da qualunque corpo solido, ogni scelta di materia è superflua, o non necessaria; e l’elezion, ch’io dissi di sopra esser ben farsi, di materia simile in gravità all’acqua, fu non perch’ella fosse necessaria per superar la crassizie dell’acqua, ma la sua gravità, con la qual sola ella resiste alla sommersione de’ corpi solidi: ché, per quel ch’aspetti alla resistenza della crassizie, se noi attentamente considereremo, troverremo come tutti i corpi solidi, tanto quei che vanno al fondo quanto quelli che galleggiano, sono indifferentemente accomodati e atti a farci venire in cognizion della verità della nostra controversia. Né mi spaventeranno dal creder tali conclusioni l’esperienze, che mi potrebbono essere opposte, di molti diversi legni, suveri, galle e, più, di sottili piastre d’ogni sorta di pietra e di metallo, pronte, per loro natural gravità, al muoversi verso il centro della terra, le quali tuttavia, impotenti, o per la figura (come stimano gli avversari), o per la leggerezza, a rompere e penetrare la continuazion delle parti dell’acqua e a distrarre la sua unione, restano a galla, né si profondano altramente: né altresì mi moverà l’autorità d’Aristotile, il quale, in più d’un luogo, afferma il contrario di questo che l’esperienza mi mostra.

Torno dunque ad affermare, che non è solido alcuno di tanta leggerezza, né di tal figura, il quale, posto sopra l’acqua, non divida e penetri la sua crassizie. Anzi, se alcuno con occhio più perspicace tornerà a riguardar più acutamente le sottili tavolette di legno, le vedrà esser con parte della grossezza loro sott’acqua, e non baciar solamente con la loro inferior superficie la superior dell’acqua, sì come è necessario che abbian creduto quelli che hanno detto che tali [p. 93 modifica] assicelle non si sommergono perché non sono potenti a divider la tenacità delle parti dell’acqua: e più vedrà, che le sottilissime piastre d’ebano, di pietra e di metallo, quando restano a galla, non solamente hanno rotta la continuazion dell’acqua, ma sono con tutta la lor grossezza sotto la superficie di quella, e più e più secondo che le materie saranno più gravi; sì che una sottil falda di piombo resta tanto più bassa che la superficie dell’acqua circunfusa, quanto è, per lo manco, la grossezza della medesima piastra presa dodici volte, e l’oro si profonderà sotto il livello dell’acqua quasi venti volte più che la grossezza della piastra, sì come io più da basso dichiarerò. Ma seguitiam di far manifesto, come l’acqua cede e si lascia penetrar da ogni leggerissimo solido; e insieme dimostriamo, come anche dalle materie che non si sommergono si poteva venire in cognizione che la figura non opera niente circa l’andare o non andare al fondo, avvegnaché l’acqua si lasci egualmente penetrar da ogni figura.

Facciasi un cono o una piramide, di cipresso o d’abeto o altro legno di simil gravità, o vero di cera pura, e sia l’altezza assai notabile, cioè d’un palmo o più, e mettasi nell’acqua con la base in giù: prima si vedrà che ella penetrerrà l’acqua, né punto sarà impedita dalla larghezza della base, non però andrà tutta sott’acqua, ma sopravanzerà verso la punta; dal che sarà già manifesto, che tal solido non resta d’affondarsi per impotenza di divider la continuità dell’acqua, avendola già divisa con la sua parte larga e, per opinione degli avversari, meno atta a dividere. Fermata così la piramide, notisi qual parte ne sarà sommersa; e rivoltisi poi con la punta all’ingiù, e vedrassi che ella non fenderà l’acqua più che prima: anzi, se si noterà sino a qual segno si tufferà, ogni persona esperta in geometria potrà misurare che quelle parti, che restano fuori dell’acqua, tanto nell’una quanto nell’altra esperienza sono a capello eguali; onde manifestamente potrà raccorre, che la figura acuta, che pareva attissima al fendere e penetrar l’acqua, non la fende né penetra punto più che la larga e spaziosa. E chi volesse una più agevole esperienza, faccia della medesima materia due cilindri, uno lungo e sottile, e l’altro corto ma molto largo, e pongagli nell’acqua, non distesi, ma eretti e per punta: vedrà, se con diligenza misura le parti dell’uno e dell’altro, che in ciascheduno di loro la parte sommersa a quella che resta fuori dell’acqua mantiene esquisitamente la proporzion medesima, e che niente [p. 94 modifica] maggior parte si sommerge di quello lungo e sottile che dell’altro più spazioso e più largo, benché questo s’appoggi sopra una superficie d’acqua molto ampia, e quello sopra una piccolissima. Adunque, la diversità di figura non apporta agevolezza o difficultà nel fendere e penetrar la continuità dell’acqua, e, in conseguenza, non può esser cagione dell’andare o non andare al fondo. Scorgerassi parimente il nulla operar della varietà di figure nel venir dal fondo dell’acqua verso la superficie, col pigliar cera e mescolarla con assai limatura di piombo, sì che divenga notabilmente più grave dell’acqua; e fattone poi una palla, e postala nel fondo dell’acqua, se le attaccherà tanto di suvero o d’altra materia leggerissima, quanto basti appunto per sollevarla e tirarla verso la superficie; perché, mutando poi la medesima cera in una falda sottile o in qualunque altra figura, il medesimo suvero la solleverà nello stesso modo a capello.

Non per questo si quietano gli avversari; ma dicono, che poco importa loro tutto il discorso fatto da me sin qui, e che a lor basta in un particolar solo, ed in che materia e sotto che figura piace loro, cioè in una assicella ed in una palla d’ebano, aver mostrato che questa, posta nell’acqua, va al fondo, e quella resta a galla; ed essendo la materia la medesima, né differendo i due corpi in altro che nella figura, affermano aver con ogni pienezza dimostrato e fatto toccar con mano quanto dovevano, e finalmente aver conseguito il loro intento. Nondimeno io credo e penso di poter dimostrare che tale esperienza non conclude cosa alcuna contro alla mia conclusione.

E, prima, è falso che la palla vada al fondo, e la tavoletta no: perché la tavoletta ancor vi va, ogni volta che si farà dell’una e dell’altra figura quel tanto che le parole della nostra quistione importano, cioè che ambedue si pongano nell’acqua.

Le parole furon tali: Che avendo gli avversarii opinione che la figura alterasse i corpi solidi circa il descendere o non descendere, ascendere o non ascendere, nell’istesso mezo, come, v. g., nell’acqua medesima, in modo che, per esempio, un solido che, sendo di figura sferica, andrebbe al fondo, ridotto in qualche altra figura, non andrebbe; io, stimando ’l contrario, affermavo che un solido corporeo, il quale, ridotto in figura sferica o qualunque altra, calasse al fondo, vi calerebbe ancora sotto qualunque altra figura, ec.

Ma esser nell’acqua vuol dire esser locato nell’acqua, e, per la difinizione [p. 95 modifica] del luogo del medesimo Aristotile, esser locato importa esser circondato dalla superficie del corpo ambiente: adunque allora saranno le due figure nell’acqua, quanto la superficie dell’acqua le abbraccerà e circonderà. Ma quando gli avversari mostrano la tavoletta d’ebano non discendente al fondo, non la pongono nell’acqua, ma sopra l’acqua, dove, da certo impedimento (che più a basso si dichiarerà) ritenuta, resta parte circondata dall’acqua e parte dall’aria; la qual cosa è contraria al nostro convenuto, che fu che i corpi debbano esser nell’acqua, e non parte in acqua e parte in aria.

Il che si fa altresì manifesto da l’esser stata la questione promossa tanto circa le cose che devono andare al fondo, quanto circa quelle che dal fondo devono ascendere a galla. E chi non vede che le cose poste nel fondo devono esser circondate dall’acqua?

Notisi, appresso, che la tavoletta d’ebano e la palla, poste che sieno dentro all’acqua, vanno amendue in fondo, ma la palla più veloce, e la tavoletta più lenta, e più e più lenta secondo che ella sarà più larga e sottile; e di tale tardità ne è veramente cagione l’ampiezza della figura: ma queste tavolette, che lentamente discendono, son quelle stesse che, posate leggiermente sopra l’acqua, galleggiano: adunque, se fusse vero quello che affermano gli avversari, la medesima figura in numero sarebbe cagione, nella stessa acqua in numero, ora di quiete e ora di tardità di moto: il che è impossibile; perché ogni figura particolare che discende al fondo, è necessario che abbia una determinata tardità sua propria e naturale, secondo la quale ella si muova, sì che ogni altra tardità, maggiore o minore, sia impropria alla sua natura; se dunque una tavoletta, v. g., d’un palmo quadro, discende naturalmente con sei gradi di tardità, è impossibile che ella discenda con dieci o con venti, se qualche nuovo impedimento non se le arreca; molto meno dunque potrà ella, per cagion della medesima figura, quietarsi e del tutto restare impedita al muoversi, ma bisogna che, qualunque volta ella si ferma, altro impedimento le sopravvenga che la larghezza della figura. Altro, dunque, che la figura è quello che ferma la tavoletta d’ebano su l’acqua: della qual figura è solamente effetto il ritardamento del moto, secondo ’l quale ella discende più lentamente che la palla. Dicasi per tanto, ottimamente discorrendo, la vera e sola cagione dell’andar l’ebano al fondo esser l’eccesso della sua gravità sopra la gravità [p. 96 modifica] dell'acqua; della maggiore o minor tardità, questa figura più larga o quella più raccolta: ma del fermarsi non può in veruna maniera dirsi che ne sia cagione la qualità della figura, sì perché, faccendosi la tardità maggiore secondo che più si dilata la figura, non è così immensa dilatazione a cui non possa trovarsi immensa tardità rispondente, senza ridursi alla nullità di moto, sì perché le figure prodotte da gli avversari per effettrici della quiete già son le medesime che vanno anche in fondo.

Io non voglio tacere un’altra ragione, fondata pur su l’esperienza, e, s’io non m’inganno, apertamente concludente, come l’introduzione dell’ampiezza di figura e della resistenza dell’acqua all’esser divisa non hanno che far nulla nell’effetto del discendere, o ascendere, o fermarsi, nell’acqua. Eleggasi un legno o altra materia, della quale una palla venga dal fondo dell’acqua alla superficie più lentamente che non va al fondo una palla d’ebano della stessa grandezza, sì che manifesto sia che la palla d’ebano più prontamente divida l’acqua discendendo, che l’altra ascendendo; e sia tal materia, per esempio, il legno di noce. Facciasi dipoi un’assicella di noce simile ed eguale a quella d’ebano degli avversari, la qual resta a galla: e se è vero che ella ci resti mediante la figura impotente, per la sua larghezza, a fender la crassizie dell’acqua, l’altra di noce, senza dubbio alcuno, posta nel fondo vi dovrà restare, come manco atta, per lo medesimo impedimento di figura, a dividere la stessa resistenza dell’acqua. Ma se noi troverremo e per esperienza vedremo, che non solamente la tavoletta, ma qualunque altra figura, del medesimo noce verrà a galla, sì come indubitatamente vedremo e troverremo, di grazia cessino gli avversari d’attribuire il soprannotare dell’ebano alla figura dell’assicella, poiché la resistenza dell’acqua è la stessa tanto all’insù quanto all’ingiù, e la forza del noce al venire a galla è minore che la forza dell’ebano all’andare in fondo.

Anzi, dirò di più che, se noi considereremo l’oro in comparazion dell’acqua, troverremo che egli la supera quasi venti volte in gravità; onde la forza e l’impeto col quale va una palla d’oro al fondo è grandissimo: all’incontro, non mancano materie, come la cera schietta e alcuni legni, li quali non cedono né anche due per cento in gravità all’acqua; onde il loro ascendere in quella è tardissimo, e mille volte più debole che l’impeto dello scender dell’oro: tuttavia una sottil [p. 97 modifica] falda d’oro galleggia, senza discendere al fondo; e, all’incontro, non si può fare una falda di cera o del detto legno, la quale, posta nel fondo dell’acqua, vi resti senza ascendere. Or, se la figura può vietar la divisione e impedir la scesa al grandissimo impeto dell’oro, come non sarà ella bastante a vietar la medesima divisione all’altra materia nell’ascendere, dove ella non ha a pena forza per una delle mille parti dell’impeto dell’oro nel discendere? È dunque necessario, che quello che trattiene la sottil falda d’oro o l’assicella d’ebano su l’acqua, sia cosa tale, della qual manchino l’altre falde e assicelle di materie men gravi dell’acqua, mentre, poste nel fondo e lasciate in libertà, sormontano alla superficie senza impedimento veruno: ma della figura piana e larga non mancano elleno: adunque non è la figura spaziosa quella che ferma l’oro e l’ebano a galla. Che dunque diremo che sia? Io per me direi che fusse il contrario di quello che è cagion dell’andare al fondo; avvegnaché il discendere al fondo e ’l restare a galla sieno effetti contrari, e degli effetti contrari contrarie debbono essere le cagioni. E perché dell’andare al fondo la tavoletta d’ebano o la sottil falda d’oro, quando ella vi va, n’è, senz’alcun dubbio, cagione la sua gravità, maggior di quella dell’acqua, adunque è forza che del suo galleggiare, quand’ella si ferma, ne sia cagione la leggerezza, la quale, in quel caso, per qualche accidente forse sin ora non osservato, si venga con la medesima tavoletta a congiugnere, rendendola non più, come avanti era, mentre si profondava, più grave dell’acqua, ma meno. Ma tal nuova leggerezza non può depender dalla figura, sì perché le figure non aggiungono o tolgono il peso, sì perché nella tavoletta non si fa mutazione alcuna di figura, quand’ella va al fondo, da quello ch’ell’aveva mentre galleggiava.

Ora tornisi a prender la sottil falda d’oro o d’argento, o vero l’assicella d’ebano, e pongasi leggiermente sopra l’acqua, sì che ella vi resti senza profondarsi; e diligentemente s’osservi l’effetto che ella fa. Vedrassi, prima, quanto sia saldo il detto d’Aristotile e degli avversari, cioè che ella resti a galla per la impotenza di fendere e penetrare la resistenza della crassizie dell’acqua: perché manifestamente apparirà, le dette falde non solo aver penetrata l’acqua, ma essere notabilmente più basse che la superficie di essa, la quale, intorno alle medesime falde, resta eminente, e gli fa quasi un argine, dentro la cui profondità quelle restano notando; e [p. 98 modifica] secondo che le dette falde saranno di materia più grave dell’acqua due, quattro, dieci, o venti volte, bisognerà che la superficie loro resti inferiore all’universal superficie dell’acqua ambiente tante e tante volte più che non è la grossezza delle medesime falde, come più distintamente appresso dimosterremo. Intanto, per più agevole intelligenza di quanto io dico attendasi alla presente figura: nella quale intendasi la superficie dell’acqua stesa secondo le linee FL, DB; sopra la quale se si poserà una tavoletta di materia più grave in ispecie dell’acqua, ma così leggiermente che non si sommerga, ella non le resterà altramente superiore, anzi entrerrà con tutta la sua grossezza nell’acqua, e più calerà ancora; come si vede per la tavoletta AI, OI, la cui grossezza tutta si profonda nell’acqua, restandogli intorno gli arginetti LA, DO dell’acqua, la cui superficie resta notabilmente superiore alla superficie della tavoletta. Or veggasi quanto sia vero che la detta lamina non vada al fondo, per esser di figura male atta a fender la corpulenza dell’acqua.

Ma se ella ha già penetrata e vinta la continuazione dell’acqua, ed è, di sua natura, della medesima acqua più grave, per qual cagione non séguita ella di profondarsi, ma si ferma e si sospende dentro a quella picciola cavità che col suo peso si è fabbricata nell’acqua? Rispondo: perché nel sommergersi sin che la sua superficie arriva al livello di quella dell’acqua, ella perde una parte della sua gravità, e ’l resto poi lo va perdendo nel profondarsi e abbassarsi oltre alla superficie dell’acqua, la quale intorno intorno li fa argine e sponda; e tal perdita fa ella mediante il tirarsi dietro e far seco discender l’aria superiore e a sé stessa, per lo contatto, aderente, la quale aria succede a riempier la cavità circondata da gli arginetti dell’acqua; sì che quello che in questo caso discende e vien locato nell’acqua, non è la sola lamina o tavoletta d’ebano, o di ferro, ma un composto d’ebano e d’aria, dal quale ne risulta un solido non più in gravità superiore all’acqua, come era il semplice ebano o ’l semplice oro. E se attentamente si considererà, quale e quanto sia il solido che in questa esperienza entra nell’acqua e contrasta con la di lei gravità, scorgerassi esser tutto quello che si ritrova sotto alla superficie dell’acqua; il che è un aggregato e composto d’una [p. 99 modifica] tavoletta d’ebano e di quasi altrettanta aria, una mole composta d’una lamina di piombo e dieci o dodici tanti d’aria. Ma, signori avversari, nella nostra quistione si ricerca la identità della materia, e solo si dee alterar la figura; però rimovete quell’aria, la quale, congiunta con la tavoletta, la fa diventare un altro corpo men grave dell’acqua, e ponete nell’acqua il semplice ebano: ché certamente voi vedrete la tavoletta scendere al fondo; e se ciò non succede, avrete vinto la lite. E per separare l’aria dall’ebano, non ci vuole altro che sottilmente bagnar con la medesima acqua la superficie di essa tavoletta, perché, interposta così l’acqua tra la tavola e l’aria, l’altr’acqua circonfusa scorrerà senza intoppo, e riceverà in sè, come conviene, il solo e semplice ebano.

Ma io sento alcuno degli avversari acutamente farmisi incontro, e dirmi ch’e’ non vogliono altramente che la lor tavoletta si bagni, perché il peso aggiuntole dall’acqua, col farla più grave che prima non era, la tira egli al fondo, e che l’aggiugnerle nuovo peso è contro alla nostra convenzione, che è che la materia debba esser la medesima.

A questo rispondo, primieramente, che trattandosi di quello che operi la figura circa i solidi posti nell’acqua, non debbe alcuno desiderar che sieno posti nell’acqua senza bagnarsi; né io domando che si faccia della tavoletta altro che quel che si fa della palla. In oltr’è falso che la tavoletta vada al fondo in virtù del nuovo peso aggiuntole dall’acqua col semplicemente e sottilissimamente bagnarla: perché io metterò dieci e venti gocciole d’acqua sopra la medesima tavoletta, mentre che ella è sostenuta su l’acqua, le quali gocciole, purché non si congiungano con l’altr’acqua circunfusa, non la graverranno sì che ella si profondi; ma se, tolta fuori la tavoletta e scossa via tutta l’acqua che vi aggiunsi, bagnerò con una sola piccolissima goccia la sua superficie, e tornerò a posarla sopra l’acqua, senza dubbio ella si sommergerà, scorrendo l’altr’acqua a ricoprirla, non ritenuta dall’aria superiore, la qual aria, per l’interposizione del sottilissimo velo dell’acqua che le leva la contiguità dell’ebano, senza renitenza si separa, né contrasta punto alla succession dell’altr’acqua; anzi pure, per meglio dire, discenderà ella liberamente, perché già si trova tutta circondata e coperta dall’acqua, quanto prima la sua superior superficie, già velata d’acqua, arriva al livello della superficie totale di essa acqua. Il dir poi che l’acqua possa accrescer peso alle [p. 100 modifica] cose che in essa sieno collocate, è falsissimo, perché l’acqua nell’acqua non ha gravità veruna, poiché ella non vi discende: anzi, se vorremo ben considerare quello che faccia qualunque immensa mole d’acqua che sia soprapposta ad un corpo grave che in quella sia locato, troverremo per esperienza, che ella, per l’opposito, più tosto gli diminuisce in gran parte il peso, e che noi potremmo sollevar tal pietra gravissima dal fondo dell’acqua, che, rimossa l’acqua, non la potremo altramente alzare. Né sia chi mi replichi che, benché l’acqua soprapposta non accresca gravità alle cose che sono in essa, pur l’accresce ella a quelle che galleggiano e che sono parte in acqua e parte in aria; come si vede, per esemplo, in un catino di rame, il quale, mentre sarà vòto d’acqua e pieno solamente d’aria, starà a galla, ma infondendovi acqua diverrà sì grave che discenderà al fondo, e ciò per cagion del nuovo peso aggiuntogli. A questo io tornerò a risponder come di sopra, che non è la gravità dell’acqua contenuta dentro al vaso quella che lo tira al fondo, ma la gravità propria del rame, superiore alla gravità in ispecie dell’acqua: ché se ’l vaso fosse di materia men grave dell’acqua, non basterebbe l’oceano a farlo sommergere. E siemi permesso di replicare, come fondamento e punto principalissimo nella presente materia, che l’aria contenuta dentro al vaso avanti la infusion dell’acqua era quella che lo sosteneva a galla, avvegnaché di lei e del rame si faceva un composto men grave d’altrettanta acqua; e ’l luogo che occupa il vaso nell’acqua mentre galleggia, non è eguale al rame solo, ma al rame e all’aria insieme, che riempie quella parte del vaso che sta sotto il livello dell’acqua. Quando poi s’infonde l’acqua, si rimuove l’aria, e fassi un composto di rame e d’acqua, più grave in ispecie dell’acqua semplice; ma non in virtù dell’acqua infusa, la quale abbia maggior gravità in ispecie dell’altr’acqua, ma sì bene per la gravità propria del rame e per l’alienazion dell’aria. Ora, sì come quel che dicesse “Il rame, che per sua natura va al fondo, figurato in forma di vaso, acquista da tal figura virtù di star nell’acqua senza discendere” direbbe il falso; perché il rame, figurato in qualunque figura, va sempre al fondo, purché quello che si pon nell’acqua sia semplice rame, e non è la figura del vaso quella che fa galleggiare il rame, ma il non esser semplice rame quello che si pone in acqua, ma un aggregato di rame e d’aria; così né più né meno è falso che una sottil falda [p. 101 modifica] di rame o d’ebano galleggi in virtù della sua figura spaziosa e piana, ma bene è vero che ella resta senza sommergersi perché quello che si pon nell’acqua non è rame schietto, o semplice ebano, ma un aggregato di rame e d’aria, o d’ebano e d’aria. E questo non è contro alla mia conclusione: il quale, avendo veduto mille volte vasi di metalli e sottili falde di varie materie gravi galleggiare in virtù dell’aria congiunta a quelli, affermai che la figura non era cagion dell’andare, o non andare, al fondo nell’acqua i solidi, che in quella fussero collocati. Ma più, io non tacerò, anzi dirò agli avversari, che questo nuovo pensiero di non voler che la superficie della tavoletta si bagni, può destar nelle terze persone concetto di scarsità di difesa per la parte loro; posciaché tal bagnamento, sul principio della nostra quistione non dava lor fastidio, e non ne facevano caso alcuno, avvegnaché l’origine della disputa fusse sopra ’l galleggiar delle falde di ghiaccio, le quali troppo semplice cosa sarebbe ’l contender che fosser di superficie asciutta; oltre che, o asciutta o bagnata che sia, sempre galleggian le falde di ghiaccio, e, pur per detto degli avversari, per cagion della figura.

Potrebbe per avventura ricorrere alcuno al dire, che, bagnandosi l’assicella d’ebano anche nella superficie superiore, ella fusse, benché per sé stessa inabile a fendere e penetrar l’acqua, sospinta al basso, se non dal peso dell’acqua aggiuntale, almeno da quel desiderio e inclinazione che hanno le parti superiori dell’acqua al ricongiungersi e riunirsi; dal movimento delle quali parti essa tavoletta venisse, in un certo modo, spinta al basso.

Tal debolissimo refugio verrà levato via, se si considererà, che quanta è la ’nclinazion delle parti superiori dell’acqua al riunirsi, tanta è la repugnanza delle inferiori all’esser disunite; né si potendo riunir le superiori senza spignere in giù l’assicella, né potendo ella abbassarsi senza disunir le parti dell’acqua sottoposta, ne séguita in necessaria conseguenza che, per simili rispetti, ella non debba discendere. Oltre che, lo stesso che vien detto delle parti superiori dell’acqua, può, con altrettanta ragione, dirsi delle inferiori, cioè che, desiderando di riunirsi, spigneranno la medesima assicella in su.

Forse alcuno di quei signori, che dissentono da me, si maraviglierà che io affermi, che l’aria contigua superiore sia potente a sostener quella laminetta di rame o d’argento, che su l’acqua si [p. 102 modifica] trattiene; come che io voglia, in un certo modo, dare una quasi virtù di calamita all’aria, di sostenere i corpi gravi co’ quali ella è contigua. Io, per soddisfare, per quanto m’è permesso, a tutte le difficultà, sono andato pensando di dimostrare con qualche altra sensata esperienza, come veramente quella poca d’aria contigua e superiore sostien que’ solidi, che, essendo per natura atti a discendere al fondo, posti leggiermente su l’acqua non si sommergono, se prima non si bagnano interamente: e ho trovato che, sceso che sia un di tali corpi al fondo, col mandargli, senza altramente toccarlo, un poco d’aria, la quale con la sommità di quello si congiunga, ella è bastante non solo, come prima faceva, a sostenerlo, ma a sollevarlo e ricondurlo ad alto, dove nella stessa maniera si ferma e resta, sin che l’aiuto dell’aria congiuntagli non gli vien manco. E a questo effetto ho fatto una palla di cera, e fattala, con un poco di piombo, tanto grave che lentamente discenda al fondo, faccendo di più la sua superficie ben tersa e pulita: e questa, posata pian piano nell’acqua, si sommerge quasi tutta, restando solamente un poco di sommità scoperta, la quale, fin che starà congiunta con l’aria, tratterrà la palla in alto; ma, tolta la contiguità dell’aria col bagnarla, discenderà in fondo, e quivi resterà. Ora, per farla, in virtù dell’aria medesima che dianzi la sosteneva, ritornare ad alto e fermarvisi appresso, spingasi nell’acqua un bicchiere rivolto, cioè con la bocca in giù, il quale porterà seco l’aria da lui contenuta, e questo si muova verso la palla, abbassandolo tanto, che si vegga, per la trasparenza del vetro, che l’aria contenuta dentro arrivi alla sommità della palla; di poi ritirisi in su lentamente il bicchiere, e vedrassi la palla risorgere e restare anche di poi ad alto, se con diligenza si separerà il bicchiere dall’acqua, sì che ella non si commuova e agiti di soverchio. È dunque tra l’aria e gli altri corpi una certa affinità, la quale gli tiene uniti, sì che non senza qualche poco di violenza si separano. Lo stesso parimente si vede nell’acqua: perché, se tufferemo in essa qualche corpo, sì che si bagni interamente, nel tirarlo poi fuor pian piano, vedremo l’acqua seguitarlo e sollevarsi notabilmente sopra la sua superficie, avanti che da quello si separi. I corpi solidi ancora, se saranno di superficie in tutto simili, sì che esquisitamente si combacino insieme, né tra di loro resti aria che si distragga nella separazione e ceda sin che l’ambiente succeda a riempier lo [p. 103 modifica] spazio, saldissimamente stanno congiunti, né senza gran forza si separano: ma perché l’aria, l’acqua e gli altri liquidi molto speditamente si figurano al contatto de’ corpi solidi, sì che la superficie loro esquisitamente s’adatta a quella de’ solidi, senza che altro resti tra loro, però più manifestamente e frequentemente si riconosce in loro l’effetto di questa copula e aderenza, che ne’ corpi duri, le cui superficie di rado congruentemente si congiungono. Questa è dunque quella virtù calamitica, la quale con salda copula congiugne tutti i corpi che senza interposizione di fluidi cedenti si toccano: e chi sa che un tal contatto, quando sia esquisitissimo, non sia bastante cagione dell’unione e continuità delle parti del corpo naturale?

Ora, seguitando il mio proposito, dico che non occorre che ricorriamo alla tenacità che abbiano le parti dell’acqua tra di loro, per la quale contrastino e resistano alla divisione distrazione e separazione, perché tale coerenza e repugnanza alla divisione non vi è: perché, se ella vi fosse, sarebbe non meno nelle parti interne che nelle più vicine alla superficie superiore, tal che la medesima tavoletta, trovando sempre lo stesso contrasto e renitenza, non men si fermerebbe a mezzo l’acqua che circa la superficie; il che è falso. In oltre, qual resistenza si potrà porre nella continuazion dell’acqua, se noi veggiamo essere impossibil cosa il ritrovar corpo alcuno, di qualunque materia figura e grandezza, il quale, posto nell’acqua, resti, dalla tenacità delle parti tra di loro di essa acqua, impedito, sì che egli non si muova in su o in giù, secondo che porta la cagion del suo movimento? E qual maggiore esperienza di ciò ricercheremo noi, di quella che tutto il giorno veggiamo nell’acque torbide, le quali, riposte in vasi ad uso di bere, ed essendo, dopo la deposizione d’alcune ore, ancora, come diciamo noi, albicce, finalmente dopo il quarto o ’l sesto giorno depongono il tutto, restando pure e limpide; né può la loro resistenza alla penetrazione fermare quegli impalpabili e insensibili atomi di rena, che, per la loro minimissima forza, consumano sei giorni a discendere lo spazio di mezo braccio?

Nè sia chi dica, assai chiaro argomento della resistenza dell’acqua all’esser divisa esser il veder noi così sottili corpicelli consumar sei giorni a scender per sì breve spazio: perché questo non è repugnare alla divisione, ma ritardare un moto; e sarebbe semplicità il dire che una cosa repugni alla divisione e che intanto si lasci dividere. Nè basta introdur [p. 104 modifica] per gli avversarii, cause ritardanti il moto, essendo bisognosi di cosa che totalmente lo vieti ed apporti la quiete: bisogna dunque ritrovar corpi che si fermino nell’acqua, chi vuol mostrar la sua repugnanza alla divisione, e non che solamente vi si muovino con tardità.

Qual dunque è questa crassizie dell’acqua, con la quale ella repugna alla divisione? quale, per nostra fé, sarà ella, se noi (pur come ho anche detto di sopra) con ogni diligenza tentando di ridurre una materia tanto simile in gravità all’acqua che, formandola anche in una larghissima falda, resti sospesa, come diciamo, tra le due acque, è impossibile il conseguirlo, benché ci conduciamo a tal similitudine d’equiponderanza, che tanto piombo quanto è la quarta parte d’un grano di miglio, aggiunto a detta larghissima falda, che in aria peserà quattro o sei libre, la conduce al fondo, e, detratto, ella viene alla superficie dell’acqua? Io non so vedere (se è vero quanto io dico, sì come è verissimo) qual minima virtù e forza s’abbia a poter ritrovare o immaginare, della quale la renitenza dell’acqua all’esser divisa e distratta non sia minore: dal che per necessità si conclude che ella sia nulla; perché, se ella fosse di qualche sensibil potere, qualche larga falda si potrebbe ritrovare o comporre di materia simile in gravità all’acqua, la quale non solamente si fermasse tra le due acque, ma non si potesse, senza notabil forza, abbassare o sollevare. Potremmo parimente la stessa verità raccorre da un’altra esperienza, mostrando come l’acqua, nello stesso modo, cede anche alla division trasversale: perché se nell’acqua ferma e stagnante locheremo qualunque grandissima mole la quale non vada al fondo, tirandola con un solo capello di donna la condurremo di luogo in luogo senza contrasto alcuno; e sia pur la sua figura qual esser si voglia, sì che ella abbracci grande spazio d’acqua, come farebbe una gran trave mossa per traverso.

Forse alcuno mi si potrebbe opporre, dicendo che, se la resistenza dell’acqua all’esser divisa fusse, come affermo io, nulla, non doverrieno i navili aver bisogno di tanta forza di remi o di vele per esser, nel mar tranquillo o negli stagnanti laghi, di luogo in luogo sospinti. A chi facesse tali opposizioni io risponderei, che l’acqua non contrasta o repugna semplicemente all’esser divisa, ma sì bene all’esser divisa velocemente, e con tanta maggior renitenza quanta la velocità è maggiore: e la cagion di tal resistenza non depende da crassizie o altro che [p. 105 modifica] assolutamente contrasti alla divisione, ma perché le parti divise dell’acqua, nel dar luogo a quel solido che in essa si muove, bisogna che esse ancora localmente si muovano, parte a destra e parte a sinistra e parte ancora all’ingiù; e ciò conviene che facciano non meno l’acque antecedenti al navilio o altro corpo che per l’acqua discorra, quanto le posteriori e susseguenti: perché, procedendo avanti il navilio, per farsi luogo capace per ricevere la sua grossezza, è forza che con la prora sospinga, tanto a destra quanto a sinistra, le prossime parti dell’acqua, e che trasversalmente le muova per tanto spazio quanto è la metà della sua grossezza; e altrettanto viaggio debbano far l’acque che, succedendo alla poppa, scorrono dalle parti esterne della nave verso quelle di mezo, a riempier successivamente i luoghi che il navilio, nell’avanzarsi avanti, va lasciando vòti di sé. Ora, perché tutti i movimenti si fanno con tempo, e i più lunghi in maggior tempo; ed essendo, di più, vero, che quei corpi che dentro a qualche tempo son mossi da qualche potenza per tanto spazio, non saranno, per lo medesimo spazio e in tempo più breve, mossi se non da maggior potenza; però i navili più larghi più lentamente si muovono che i più stretti, spinti da forze eguali, e ’l medesimo vassello tanto maggior forza di vento o di remi richiede, quanto più velocemente dee essere spinto.

Ma non è già che qual si voglia gran mole, che galleggi nell’acqua stagnante, non possa esser mossa da qualunque minima forza, e solo è vero che minor forza più lentamente la muove: ma quando la resistenza dell’acqua all’esser divisa fosse in alcun modo sensibile, converrebbe che detta mole a qualche sensibil forza restasse al tutto immobile; il che non avviene. Anzi dirò di più, che, quando noi ci ritirassimo a più interna contemplazione della natura dell’acqua e de gli altri fluidi, forse scorgeremmo, la costituzione delle parti loro esser tale che non solamente non contrasti alla divisione, ma che niente vi sia che a divider s’abbia; sì che la resistenza che si sente nel muoversi per l’acqua, sia simile a quella che proviamo nel caminar avanti per una gran calca di persone, dove sentiamo impedimento, e non per difficoltà che si abbia nel dividere, non si dividendo alcuno di quelli onde la calca è composta, ma solamente nel muover lateralmente le persone, già divise non congiunte; e così proviamo resistenzia nel cacciare un legno in un monte di rena, non perché parte alcuna della rena si abbia a segare, ma solamente a muovere e sollevare. Due maniere [p. 106 modifica] pertanto, di penetrare ci si rappresentano: una ne i corpi le cui parti fosser continue, e qui par necessaria la divisione; l’altra negli aggregati di parti non continue, ma contigue solamente, e qui non fu bisogno di dividere, ma di muover solamente. Ora, io non son ben resoluto se l’acqua e gli altri fluidi si devono stimar di parti continue, o contigue solamente. Sento ben inclinarmi al crederle più presto contigue (quando non sia in natura altra maniera di aggregare che con l’unione o col toccamento de gli estremi), e a ciò m’induce il veder gran differenza tra la copula delle parti di un corpo duro, e la copula delle medesime parti quando l’istesso corpo sarà fatto liquido e fluido: perché, se, per esemplo, io piglierò una massa d’argento o altro metallo freddo e duro, sentirò, nel dividerlo in due parti, non solo la resistenza che si sentirebbe al muoverle solamente, ma un’altra incomparabilmente maggiore, dependente da quella virtù, qualunque ella sia, che le tiene attaccate; e così, se vorremo dividere ancora e dette due parti in altre due, e successivamente in altre e altre, troverremo continuamente simili resistenze, ma sempre minori quanto più le parti da dividersi saranno piccole; ma quando finalmente, adoprando sottilissimi e acutissimi strumenti, quali sono le più tenui parti del fuoco, lo solveremo forse nell’ultime e minime sue particelle, non resterà in loro più non solo la resistenza alla divisione, ma né anco il poter più esser divise, e massime da strumenti più grossi de gli aculei del fuoco. E qual sega o coltello, che si metta nell’argento ben fuso, troverà da dividere cosa che sia avanzata al partimento del fuoco? certo nissuna, perché o ’l tutto sarà già stato ridotto alle sottilissime e ultime divisioni, o, se pure vi restassero parti capaci ancora di altre suddivisioni, non potriano riceverle se non da divisori più acuti del fuoco; ma tale non è un’assicella o una verga di ferro, che si movesse per il metallo fuso. Di costituzione e positura simile stimo esser le parti dell’acqua e de gli altri fluidi, cioè incapaci di esser divise per la lor tenuità, o, se pur non in tutto indivisibili, al meno certo non divisibili da una tavola o da altro corpo solido trattabile dalle nostre mani, dovendo la sega esser più sottile del solido da segarsi. Muovono dunque solamente, e non dividono, i corpi solidi che si pongono nell’acqua; le cui parti, essendo già divise sino a i minimi e perciò potendo esserne mosse molte insieme e poche e pochissime, dan subito luogo ad ogni piccolo corpuscolo che in esse descenda, perché, per minimo e leggiero che sia, scendendo nell’aria e arrivando alla superficie dell’acqua trova particelle di acqua più piccole e di resistenza minore all’esser mosse e scacciate, che [p. 107 modifica] non è la forza sua propria premente e scacciante, onde e’ si tuffa e ne muove quella porzione che è proporzionata alla sua possanza. Non è dunque resistenza alcuna nell’acqua all’esser divisa, anzi non vi son parti che a divider s’abbino. Soggiungo appresso che, quando pure vi si trovasse qualche minima resistenza (il che assolutamente è falsissimo), forse nel voler con un capello muover una grandissima macchina natante, o nel voler con la giunta di un minimo grano di piombo far descendere al fondo, o con la suttrazzione far salire alla superficie, una gran falda di materia similissima in gravità all’acqua (il che parimente non accaderà quando si operi destramente); notisi che una cotal resistenza è cosa diversissima da quella che gli avversarii producono per causa del galleggiar le falde di piombo o l’assicelle d’ebano; perché si potrà fare una tavola d’ebano, che posata su l’acqua galleggi, né sia bastante anco la giunta di cento grani di piombo, posativi sopra, a sommergerla, che poi, bagnata, non solo descenderà levati i detti piombi, ma non basteranno alcuni suveri o altri corpi leggieri attaccatigli a ritenerla dallo scender sino al fondo. Or veggasi se, dato anco che nella sustanza dell’acqua si trovasse qualche minima resistenza alla divisione, questa ha che far nulla con quella causa che sostien l’assicella sopra l’acqua, con resistenza centomila volte maggiore di quella che altri potesse ritrovar nelle parti dell’acqua. Né mi si dica che la superficie solamente dell’acqua ha tal resistenza, ma non le parti interne, o veramente che tal resistenza si trova grandissima nel cominciare a fendere, come anco par che nel cominciare il moto si trovi maggior contrasto che nel continuarlo: perché, prima, io permetterò che l’acqua si agiti e si confondano le parti supreme con le medie e con l’infime, o vero che si levino totalmente via quelle di sopra e si adoprino quelle di mezo; e tuttavia si vedrà far l’effetto stesso: di più, quel capello che tira una trave per l’acqua ha pur a divider le parti supreme, ed ha anco a cominciare il moto; e pur lo comincia, e pur le divide: e, finalmente, mettasi l’assicella a mezz’acqua, e quivi si tenga sospesa un pezzo e ferma, e poi lascisi in libertà, che ella subito comincerà il moto e lo continuerà sino al fondo; ma, di più, la tavoletta quando si ferma sopra l’acqua, ha già non pur cominciato a muoversi ed a dividere, ma per buono spazio si è affondata.

Ricevasi, dunque, per vera e indubitata conclusione, che l’acqua non ha renitenza alcuna alla semplice divisione, e che non è possibile il ritrovar corpo solido alcuno, di qualunque figura esser si voglia, al quale, messo nell’acqua, resti dalla crassizie di quella proibito [p. 108 modifica] e tolto il muoversi in su o in giù, secondoché egli supererà o sarà superato dall’acqua in gravità, ancorché l’eccesso e differenza sia insensibile. Quando, dunque, noi vediamo la falda d’ebano, o d’altra materia più grave dell’acqua, trattenersi a’ confini dell’acqua e dell’aria senza sommergersi, ad altro fonte bisogna che ricorriamo, per investigar la cagion di cotale effetto, che alla larghezza della figura impotente a superar la renitenza con la quale l’acqua contrasta alla divisione, già che tal resistenza non è, e da quello che non è non si dee attendere azione alcuna. Resta, dunque, come già s’è detto, verissimo, ciò avvenire perché quello che si posa in tal modo su l’acqua, non è il medesimo corpo che quello che si mette nell’acqua: perché questo, che si mette nell’acqua, è la pura falda d’ebano, che, per esser più grave dell’acqua, va al fondo; e quello che si posa su l’acqua, è un composto d’ebano e di tanta aria, che tra ambedue sono in ispecie men gravi dell’acqua, e però non discendono.

Confermo ancor più questo ch’io dico. Già, signori avversari, noi convegniamo che la gravità del solido, maggiore o minore della gravità dell’acqua, è vera e propriissima cagione dell’andare o non andare al fondo. Ora, se voi volete mostrare che, oltre alla detta cagion, ce ne sia un’altra, la qual sia così potente che possa impedire e rimuovere l’andare al fondo a quei solidi medesimi che per loro gravità vi vanno, e questa dite che è l’ampiezza della figura, voi siete in obbligo, qualunque volta vogliate mostrare una tale esperienza, di render prima i circustanti sicuri, che quel solido, che voi ponete nell’acqua, non sia men grave in ispecie di lei; perché, quando voi ciò non faceste, ciascuno potrebbe con ragion dire che non la figura, ma la leggerezza, fosse cagion di tal galleggiare. Ma io vi dico che, quando voi mostrate di metter nell’acqua l’assicella d’ebano, non vi ponete altramente un solido più grave in ispecie dell’acqua, ma un più leggiere; perché, oltr’all’ebano, è in acqua una mole d’aria, unita con l’assicella, tanta e così leggiera, che d’amendue si fa un composto men grave dell’acqua: rimovete per tanto l’aria, e ponete nell’acqua l’ebano solo, ché così vi porrete un solido più grave dell’acqua; e se questo non andrà in fondo, voi bene avrete filosofato, e io male.

Ora, poi ch’e’ s’è ritrovata la vera cagion del galleggiar di quei corpi, che per altro, come più gravi dell’acqua, dovrieno discendere [p. 109 modifica] in fondo, parmi che, per intera e distinta cognizion di questa materia, sia bene l’andar dimostrativamente scoprendo quei particolari accidenti che accaggiono intorno a cotali effetti, investigando quali proporzioni debbano aver diverse figure di differenti materie con la gravità dell’acqua, per potere, in virtù dell’aria contigua, sostenersi a galla.

Sia, dunque, per chiara intelligenza, il vaso DFNE, nel quale sia contenuta l’acqua; e sia una lamina, o tavoletta, la cui grossezza venga compresa tra le linee IC, OS, e sia di materia più grave dell’acqua, sì che, posta su l’acqua, s’avvalli e abbassi sotto il livello di essa acqua, lasciando gli arginetti AI, BC, li quali sien della massima altezza che esser possano; in modo che se la lamina IS s’abbassasse ancora per qualsivoglia minimo spazio, gli arginetti non più consistessero, ma, scacciando l’aria AICB, si diffondessero sopra la superficie IC e sommergessero la lamina. È dunque l’altezza AI, BC la massima profondità che ammettono gli arginetti dell’acqua. Ora io dico che da questa e dalla proporzione che avrà in gravità la materia della lamina all’acqua, noi potremo agevolmente ritrovar di quanta grossezza, al più, si possano fare le dette lamine, acciò si sostengano su l’acqua. Imperocché, se la materia della lamina IS sarà, v. g., il doppio più grave dell’acqua, una lamina di tal materia potrà esser grossa, al più, quanto è l’altezza massima degli argini, cioè quanto è l’altezza AI. Il che dimostrerremo così. Sia il solido IS di gravità doppia alla gravità dell’acqua, e sia o prisma o cilindro retto, cioè che abbia le due superficie piane, superiore e inferiore, simili ed eguali e a squadra con l’altre superficie laterali, e sia la sua grossezza IO eguale all’altezza massima degli argini dell’acqua: dico che, posto su l’acqua, non si sommergerà. Imperocché, essendo l’altezza AI eguale all’altezza IO, sarà la mole dell’aria ABCI eguale alla mole del solido CIOS, e tutta la mole AOSB doppia della mole IS: e avvegnaché la mole dell’aria AC non cresca o diminuisca la gravità della mole IS, e ’l solido IS si pone doppio in gravità all’acqua, adunque tant’acqua quanta è la mole sommersa AOSB, composta dell’aria AICB e del solido IOSC, pesa appunto quanto essa mole sommersa AOSB: ma quando tanta mole d’acqua, quanta è la parte sommersa del solido, pesa quanto lo stesso solido, esso non [p. 110 modifica] discende più, ma si ferma, come da Archimede, e sopra da noi, è stato dimostrato: adunque IS non discenderà più, ma si fermerà. E se il solido IS sarà in gravità sesquialtero all’acqua, resterà a galla, sempre che la sua grossezza non sia più che ’l doppio dell’altezza massima dell’argine, cioè di AI. Imperocché, essendo IS sesquialtero in gravità all’acqua, ed essendo l’altezza OI doppia della IA, sarà ancora il solido sommerso AOSB sesquialtero in mole al solido IS: e perché l’aria AC non cresce o scema il peso del solido IS, adunque tanta acqua, quanta è la mole sommersa AOSB, pesa quanto essa mole sommersa: adunque tal mole si fermerà. E in somma, universalmente, ogni volta che l’eccesso della gravità del solido sopra la gravità dell’acqua, alla gravità dell’acqua avrà la medesima proporzione che l’altezza dell’arginetto alla grossezza del solido, tal solido non andrà al fondo; ma d’ogni maggior grossezza, andrebbe.

Sia il solido IS più grave dell’acqua, e di grossezza tale che tal proporzione abbia l’altezza dell’argine AI alla grossezza del solido IO, quale ha l’eccesso della gravità di esso solido IS sopra la gravità d’una mole d’acqua eguale alla mole IS, alla gravità della mole d’acqua eguale alla mole IS: dico che il solido IS non si sommergerà; ma d’ogni maggior grossezza, andrà al fondo. Imperocché, essendo come AI ad IO, così l’eccesso della gravità del solido IS sopra la gravità d’una mole d’acqua eguale alla mole IS, alla gravità della medesima mole d’acqua, sarà, componendo, come AO ad OI così la gravità del solido IS alla gravità d’una mole d’acqua eguale alla mole IS, e, convertendo, come IO ad OA così la gravità d’una mole d’acqua eguale alla mole IS alla gravità del solido IS: ma come IO ad OA, così una mole d’acqua IS ad una mole d’acqua eguale alla mole ABSO, e la gravità d’una mole d’acqua IS alla gravità d’una mole d’acqua AS: adunque come la gravità d’una mole d’acqua eguale alla mole IS alla gravità del solido IS, così la medesima gravità d’una mole d’acqua IS alla gravità d’una mole d’acqua AS. Adunque la gravità del solido IS è eguale alla gravità d’una mole d’acqua eguale alla mole AS: ma la gravità del solido IS è la medesima che la gravità del solido AS, composto del solido IS e dell’aria ABCI: adunque tanto pesa tutto il solido composto AOSB, quanto pesa l’acqua che si conterrebbe nel luogo di esso composto AOSB<nowiki>; e però si farà l’equilibrio e la quiete, né più si profonderà [p. 111 modifica] esso solido IOSC. Ma se la sua grossezza IO si crescesse, bisognerebbe crescere ancora l’altezza dell’argine AI per mantener la debita proporzione: ma, per lo supposto, l’altezza dell’argine AI è la massima che la natura dell’acqua e dell’aria permettano, senza che l’acqua scacci l’aria aderente alla superficie del solido IC e ingombri lo spazio AICB: adunque solido di maggior grossezza che IO, e della medesima materia del solido IS, non resterà senza sommergersi, ma discenderà al fondo: che è quello che bisognava dimostrare.

In conseguenza di questo che s’è dimostrato, molte e varie conclusioni si posson raccorre, dalle quali più e più sempre venga confermata la verità della mia principal proposizione, e scoperto quanto imperfettamente sia stato sin ora filosofato circa la presente quistione.

E prima, raccogliesi dalle cose dimostrate, che tutte le materie, ancorché gravissime, possono sostenersi su l’acqua, sino allo stesso oro, grave più d’ogni altro corpo conosciuto da noi: perché, considerata la sua gravità esser quasi venti volte maggior di quella dell’acqua, e, più, determinata l’altezza massima dell’argine che può far l’acqua senza rompere il ritegno dell’aria aderente alla superficie del solido che si posa su l’acqua, se noi faremo una lamina d’oro così sottile che non ecceda in grossezza la diciannovesima parte dell’altezza del detto arginetto, questa, posata leggiermente su l’acqua, resterà senza andare in fondo. E se l’ebano, per caso, sarà in proporzione sesquisettima più grave dell’acqua, la massima grossezza che si possa dare ad una tavoletta d’ebano, sì che ella possa sostenersi senza sommergersi, sarà sette volte più che l’altezza dell’arginetto. Lo stagno, v. g., otto volte più grave dell’acqua, galleggerà ogni volta che la grossezza della sua lamina non ecceda la settima parte dell’altezza dell’arginetto.

E già non voglio passar sotto silenzio di notare, come un secondo corollario dependente dalle cose dimostrate, che l’ampiezza della figura non solamente non è cagion del galleggiar quei corpi gravi che per altro si sommergono, ma né anche da lei depende il determinare quali sieno quelle falde d’ebano, di ferro o d’oro che possano stare a galla; anzi tal determinazione dalla sola grossezza di esse figure d’ebano o d’oro si dee attendere, escludendo totalmente la considerazione della lunghezza e della larghezza, come quelle che in verun conto non hanno parte in questo effetto. Già si è fatto manifesto, [p. 112 modifica]come cagione del galleggiare le dette falde ne è solamente il ridursi ad esser men gravi dell’acqua, mercé dell’accoppiamento di quell’aria che insieme con loro discende e occupa luogo nell’acqua; il qual luogo occupato se, avanti che l’acqua circunfusa si sparga ad ingombrarlo, sarà capace di tant’acqua che pesasse quanto la falda, resta la falda sospesa su l’acqua, né più si sommerge. Or veggasi da quale delle tre dimensioni del solido dependa il determinare quale e quanta debba esser la mole di quello, acciocché l’aiuto dell’aria, che se le accoppierà, possa esser bastante a renderlo men grave in ispecie dell’acqua, ond’egli resti senza sommergersi: troverrassi senz’alcun dubbio che la lunghezza o larghezza non hanno che fare in simil determinazione, ma solamente l’altezza o vogliam dir la grossezza. Imperocché, se si piglierà una falda o tavoletta, per esemplo, d’ebano, la cui altezza alla massima possibile altezza dell’arginetto abbia la proporzione dichiarata di sopra, il perché ella soprannuoti sì, ma non già se s’accresce punto la sua grossezza, dico che, servata la sua grossezza, e crescendo due quattro e dieci volte la sua superficie, o scemandola col dividerla in quattro o sei o venti e cento parti, sempre resterà nel medesimo modo a galla; ma se si crescerà solo un capello la sua grossezza, sempre si profonderà, quando bene la superficie si multiplicasse per cento e cento volte. Ora, conciossiacosa che quella sia cagione, la qual posta, si pon l’effetto, e tolta, si toglie, e per crescere o diminuire in qualunque modo la larghezza e lunghezza non si pone o rimuove l’effetto d’andare o non andare al fondo; adunque l’ampiezza o picciolezza della superficie non hanno azione alcuna circa l’andare o non andare al fondo. E che, posta la proporzione dell’altezza dell’argine all’altezza del solido nel modo di sopra detto, la grandezza o piccolezza della superficie non faccia variazione alcuna, è manifesto da quello che di sopra si è dimostrato, e da questo: che i prismi e i cilindri che hanno la medesima base, son fra di loro come l’altezze; onde i cilindri o prismi, cioè le tavolette, grandi o piccole ch’elle sieno, pur che tutte sien d’egual grossezza, hanno la medesima proporzione all’aria sua conterminale, che ha per base la medesima superficie della tavoletta e per altezza l’arginetto dell’acqua; sì che sempre di tale aria e della tavoletta si compongono solidi, che in gravità pareggiano una mole d’acqua eguale alla mole di essi solidi, composti dell’aria e della [p. 113 modifica]tavoletta: per lo che tutti i detti solidi restano nel medesimo modo a galla.

Raccoglieremo, nel terzo luogo, come ogni sorta di figura e di qualsivoglia materia, benché più grave dell’acqua, può, per beneficio dell’arginetto, non solamente sostenersi senza andare al fondo, ma alcune figure, benché di materia gravissima, restare anche tutte sopra l’acqua, non si bagnando se non la superficie inferiore che tocca l’acqua; e queste saranno tutte le figure le quali dalla base inferiore in su si vanno assottigliando: il che noi esemplificheremo per ora nelle piramidi o coni, delle quali figure le passioni son comuni. Dimostreremo dunque, come è possibile formare una piramide o cono di qualsivoglia materia proposta, il quale, posato con la base sopra l’acqua, resti non solo senza sommergersi, ma senza bagnarsi altro che la base. Per la cui esplicazione fa di bisogno prima dimostrare il seguente lemma, cioè che:

I solidi de’ quali le moli in proporzione rispondono contrariamente alle lor gravità in ispecie, son di gravità assoluta eguali. Sieno due solidi, AC e B; e sia la mole AC alla mole B come la gravità in ispecie del solido B alla gravità in ispecie del solido AC: dico, i solidi AC e B esser di peso assoluto eguali, cioè egualmente gravi. Imperocché, se la mole AC sia eguale alla mole B, sarà, per l’assunto, la gravità in ispecie di B eguale alla gravità in ispecie di AC; ed essendo eguali in mole e della medesima gravità in ispecie, peseranno anche assolutamente tanto l’uno come l’altro. Ma se le lor moli saranno diseguali, sia la mole AC maggiore, ed in essa prendasi la parte C eguale alla mole B; e perché le moli B, C sono eguali, la medesima proporzione avrà il peso assoluto di B al peso assoluto di C, che ha la gravità in ispecie di B alla gravità in ispecie di C, o vero di CA, che in ispecie è la medesima: ma qual proporzione ha la gravità in ispecie di B alla gravità in ispecie di CA, tale, per lo dato, ha la mole AC alla mole B, cioè alla mole C: adunque il peso assoluto di B al peso assoluto di C è come la mole AC alla mole C. Ma come la mole AC alla mole C, così è il peso assoluto di AC al peso assoluto di C: adunque il peso assoluto di B al peso assoluto di C ha la medesima proporzione che ’l peso assoluto di AC al medesimo peso assoluto di C: adunque i due solidi AC e B pesano di peso assoluto egualmente: che è quello che bisognava dimostrare. [p. 114 modifica]

Avendo dimostrato questo, dico che è possibile di qual si voglia materia proposta formare una piramide o cono, sopra qualsivoglia base, il quale, posato su l’acqua, non si sommerga né bagni, altro che la base. Sia la massima possibile altezza dell’argine la linea DB<nowiki>; e ’l diametro della base del cono da farsi, di qualunque materia assegnata, sia la linea BC, ad angolo retto con DB<nowiki>; e la proporzione che ha la gravità in ispecie della materia della piramide o cono da farsi, alla gravità in ispecie dell’acqua, la medesima abbia l’altezza dell’argine DB alla terza parte dell’altezza della piramide o cono ABC, fatto su la base il cui diametro sia BC: dico che detto cono ABC, e ogni altro più basso di lui, resterà sopra la superficie dell’acqua BC senza sommergersi.. Tirisi la DF parallela alla BC, e intendasi il prisma o cilindro EC, il quale sarà triplo al cono ABC: e perché il cilindro DC al cilindro CE ha la medesima proporzione che l’altezza DB all’altezza BE, ma il cilindro CE al cono ABC è come l’altezza EB alla terza parte dell’altezza del cono, adunque, per la proporzione eguale, il cilindro DC al cono ABC è come DB alla terza parte dell’altezza BE. Ma come DB alla terza parte di BE, così è la gravità in ispecie del cono ABC alla gravità in ispecie dell’acqua: adunque, come la mole del solido DC alla mole del cono ABC, così la gravità in ispecie di esso cono alla gravità in ispecie dell’acqua: adunque, per lo lemma precedente, il cono ABC pesa assolutamente come una mole d’acqua eguale alla mole DC. Ma l’acqua che per la ’mposizione del cono ABC viene scacciata del suo luogo, è quanta capirebbe precisamente nel luogo DC, ed è in peso eguale al cono che la scaccia: adunque si farà l’equilibrio, e ’l cono resterà senza più profondarsi. Ed è manifesto, che faccendosi sopra la medesima base un cono meno alto, sarà anche men grave, e tanto più resterà senza sommergersi.

È manifesto ancora, come si possono far coni e piramidi di qualsivoglia materia più grave dell’acqua, li quali, posti nell’acqua con la sommità o punta in giù, restino senza andare in fondo. Perché, se ripiglieremo quello che di sopra fu dimostrato de’ prismi e cilindri, e che in base eguali a quelle di essi cilindri formeremo coni della medesima materia e tre volte più alti de’ cilindri, quelli resteranno a galla; perché saranno in mole e peso eguali ad essi cilindri, e, per [p. 115 modifica]aver le lor base eguali a quelle de’ cilindri, lasceranno sopra eguali moli d’aria contenuta dentro gli arginetti.

Questo, che per modo d’esemplo s’è dimostrato de’ prismi, cilindri coni e piramidi, si potrebbe dimostrare di tutte l’altre figure solide; ma bisognerebbe, tanta è la moltitudine e la varietà de’ lor sintomi e accidenti, formarne un volume intero, volendo comprendere le particolari dimostrazioni di tutti e de’ loro segmenti. Ma voglio, per non estendere il presente discorso in infinito, contentarmi che da quanto ho dichiarato ogni uno di mediocre intelligenza possa comprendere, come non è materia alcuna così grave, insino all’oro stesso, della quale non si possano formar tutte le sorte di figure, le quali, in virtù dell’aria superiore ad esse aderente, e non per resistenza dell’acqua alla penetrazione, restino sostenute, sì che non discendano al fondo: anzi di più mostrerò, per rimuovere un tale errore, come una piramide o cono, posto nell’acqua con la punta in giù, resterà senza andare a fondo, e ’l medesimo, posto con la base in giù, andrà in fondo, e sarà impossibile il farlo soprannotare; e pur tutto l’opposito accader dovrebbe, se la difficultà del fender l’acqua fusse quella che impedisse la scesa, conciosiacosa che il medesimo cono è molto più accomodato a fendere e penetrare con la punta acutissima che con la base larga e spaziosa.


E sia, per dimostrar questo, il cono ABC, due volte grave quanto l’acqua, e sia la sua altezza tripla all’altezza dell’arginetto DAEC: dico, primieramente, che, posto nell’acqua leggiermente con la punta in giù, non discenderà al fondo. Imperocché il cilindro aereo, contenuto tra gli argini DA, CE, in mole è eguale al cono ABC, tal che tutta la mole del solido composto dell’aria DACE e del cono ABC sarà doppia del cono ACB: e perché il cono ABC si pone di materia il doppio più grave dell’acqua, adunque tant’acqua quant’è tutta la mole DABCE, locata sotto ’l livello dell’acqua, pesa quanto il cono ABC, e però si farà l’equilibrio; e ’l cono ABC non calerà più a basso.

Dico ora, di più, che ’l medesimo cono, posato con la base all’ingiù, calerà al fondo, ed essere impossibile che egli in modo alcuno resti a galla. Sia dunque il cono ABD, doppio in gravità all’acqua, e sia la sua altezza tripla dell’altezza dell’argine LB. È già manifesto che tutto fuori dell’acqua non resterà: perché, essendo il cilindro compreso [p. 116 modifica]dentro agli argini LB, DP eguale al cono ABD, ed essendo la materia del cono doppia in gravità all’acqua, è manifesto che il peso di esso cono sarà doppio al peso della mole d’acqua eguale al cilindro LBDP; adunque non resterà in questo stato, ma discenderà. Dico, in oltre, che molto meno si fermerà sommergendone una parte: il che s’intenderà comparando con l’acqua tanto la parte che si sommergerà, quanto l’altra che avanzerà fuori. Sommergasi, dunque, del cono ABD la parte NTOS, e avanzi la punta NSF: sarà l’altezza del cono FNS o più che la metà di tutta l’altezza del cono FTO, o vero non sarà più. Se sarà più che la metà, il cono FNS sarà più che la metà del cilindro ENSC; imperocché l’altezza del cono FNS sarà più che sesquialtera dell’altezza del cilindro ENSC: e perché si pone che la materia del cono sia in ispecie il doppio più grave dell’acqua, l’acqua che si conterrebbe dentro all’arginetto ENSC sarebbe assolutamente men grave del cono FNS: onde il cono solo FNS non può esser sostenuto dall’arginetto. Ma la parte sommersa NTOS, per essere in ispecie più grave il doppio dell’acqua, tenderà al fondo: adunque tutto il cono FTO, tanto rispetto alla parte sommersa, quanto all’eminente, discenderà al fondo. Ma se l’altezza della punta FNS sarà la metà di tutta l’altezza del cono FTO, sarà la medesima altezza di esso cono FNS sesquialtera all’altezza EN; e però ENSC sarà doppio del cono FNS, e tanta acqua in mole quanto è il cilindro ENSC, peserebbe quanto la parte del cono FNS. Ma perché l’altra parte sommersa NTOS è in gravità doppia all’acqua, tanta mole d’acqua quanta è quella che si compone del cilindro ENSC e del solido NTOS peserà manco del cono FTO tanto, quanto è il peso d’una mole d’acqua eguale al solido NTOS: adunque il cono discenderà ancora.

Anzi, perché il solido NTOS è settuplo al cono FNS, del quale il cilindro ES è doppio, sarà la proporzione del solido NTOS al cilindro ENSC come di 7 a 2: adunque tutto il solido composto del cilindro ENSC e del solido NTOS è molto meno che doppio del solido NTOS: adunque il solido solo NTOS è molto più grave che una mole d’acqua eguale al composto del cilindro ENSC e NTOS: dal che ne segue che, quando anche si rimovesse e togliesse via la parte del cono FNS, il restante solo NTOS andrebbe al fondo. E se più si profonderà il [p. 117 modifica] cono FTO, tanto più sarà impossibile che si sostenga a galla, crescendo sempre la parte sommersa NTOS e scemando la mole dell’aria contenuta dentro all’arginetto, il quale si fa sempre minore quanto più il cono si sommerge.

Tal cono, dunque, che con la base in su e la cuspide in giù si sostiene senza andare al fondo, posto con la base in giù è impossibile che non si sommerga. Lungi dal vero, adunque, hanno filosofato coloro che hanno attribuito la cagion del soprannotare alla resistenza dell’acqua in esser divisa come a principio passivo, e alla larghezza della figura di chi l’ha da dividere, come efficiente.

Vengo, nel quarto luogo, a raccogliere e concludere la ragione di quello che io proposi agli avversari, cioè: Che è possibile formar corpi solidi di qual si voglia figura e di qual si voglia grandezza, li quali per sua natura vadano a fondo, ma con l’aiuto dell’aria contenuta nell’arginetto restino senza sommergersi.

La verità di questa proposizione è assai manifesta in tutte quelle figure solide le quali terminano nella lor più alta parte in una superficie piana; perché, formandosi tali figure di qualche materia grave in ispecie come l’acqua, mettendole nell’acqua sì che tutta la mole si ricuopra, è manifesto che si fermeranno in tutti i luoghi, dato però che tal maniera di peso eguale all’acqua si potesse a capello aggiustare, e resteranno anche, in conseguenza, al pelo dell’acqua, senza farsi arginetto alcuno. Se dunque, rispetto alla materia, tali figure sono atte a restare senza sommergersi, benché prive dell’aiuto dell’arginetto, chiara cosa è ch’elle si potranno far tanto crescer di gravezza, senza crescer la lor mole, quanto è il peso di tanta acqua, quanta si conterrebbe dentro all’arginetto che si facesse intorno alla loro piana superficie superiore; dal cui aiuto sostenute, resteranno a galla; ma bagnate andranno al fondo, essendo state fatte più gravi dell’acqua. Nelle figure, dunque, che terminano di sopra in un piano, chiaramente si comprende come l’arginetto, posto o tolto, può vietare o permettere la scesa: ma in quelle che si vanno verso la sommità attenuando, potrà qualcuno, e non senza molta apparente cagione, dubitare se queste possano far lo stesso, e massimamente quelle che vanno a terminare in una acutissima punta, come sono i coni e le piramidi sottili. Di queste, dunque, come più dubbie di tutte l’altre, cercherò di dimostrare come esse ancora soggiacciono [p. 118 modifica]al medesimo accidente d’andare e non andare al fondo le medesime, e sieno di qual si voglia grandezza.

Sia dunque il cono ABD, fatto di materia grave in ispecie come l’acqua: è manifesto che, messo tutto sott’acqua, resterà in tutti i luoghi (intendasi sempre quando esquisitissimamente pesasse quanto l’acqua, il che è quasi impossibile a effettuarsi), e che ogni piccola gravità che se gli aggiunga, andrà al fondo. Ma se si calerà a basso leggiermente, dico che si farà l’arginetto ESTO, e che resterà fuori dell’acqua la punta AST, d’altezza tripla all’altezza dell’argine ES. Il che si fa manifesto: imperocché, pesando la materia del cono egualmente come l’acqua, la parte sommersa SBDT resta indifferente al muoversi in giù o in su; e ’l cono AST essendo eguale in mole all’acqua che si conterrebbe dentro all’arginetto ESTO, gli sarà anche eguale in gravità; e però sarà in tutto fatto l’equilibrio e, in conseguenza, la quiete.

Nasce ora il dubbio, se si possa far più grave il cono ABD tanto, che quando sia messo tutto sott’acqua vada al fondo, ma non già tanto che si levi all’arginetto la facultà del poter sostenerlo senza sommergersi. E la ragione del dubitare è questa: che se bene, quando il cono ABD è in ispecie grave come l’acqua, l’arginetto ESTO lo sostiene non solamente quando la punta AST è tripla in altezza all’altezza dell’argine ES, ma più ancora quando minor parte ne restasse fuori dell’acqua (perché se bene, nel discender che fa il cono, la punta AST scema, e scema altresì l’arginetto ESTO, nientedimeno con maggior proporzione scema la punta che l’argine; la quale si diminuisce secondo tutte e tre le dimensioni, ma l’argine secondo due solamente, restando sempre l’altezza la medesima; o vogliam dire perché il cono ST va scemando secondo la proporzione de’ cubi delle linee che di mano in mano si fanno diametri delle base de’ coni emergenti, e gli arginetti scemando secondo la proporzion de’ quadrati delle medesime linee, onde le proporzioni delle punte son sempre sesquialtere delle proporzioni de’ cilindri contenuti dentro agli arginetti: onde se, per esemplo, l’altezza della punta emergente fosse doppia o eguale all’altezza dell’argine, in questi casi il cilindro contenuto dentro all’argine sarebbe assai maggiore della detta punta, perché sarebbe [p. 119 modifica] sesquialtero o triplo; il perché ci avanzerebbe forza per sostener tutto il cono, già che la parte sommersa non graverebbe più niente); tuttavia, quando venga aggiunta alcuna gravità a tutta la mole del cono, sì che anche la parte sommersa non resti senza qualche eccesso di gravità sopra la gravità dell’acqua, non resta chiaro se ’l cilindro contenuto dentr’all’arginetto, nel calar che farà il cono, potrà ridursi a tal proporzione con la punta emergente e a tale eccesso di mole sopra la mole di essa, che possa ristorar l’eccesso della gravità in ispecie del cono sopra la gravità dell’acqua. E la dubitazione procede perché, se bene, nell’abbassarsi che fa il cono, la punta emergente AST si diminuisce, per la qual cosa scema ancora l’eccesso della gravità del cono sopra la gravità dell’acqua, il punto sta che l’argine ancora si ristrigne, e ’l cilindro contenuto da esso si diminuisce. Tutta via si dimostrerrà come, essendo il cono ABD di qual si voglia grandezza, e fatto in prima di materia in gravità similissima all’acqua, se gli possa aggiugner qualche peso, per lo quale e’ possa discendere al fondo quando sia posto sott’acqua, e possa anche, in virtù dell’arginetto, fermarsi senza sommergersi.

Sia dunque il cono ABD di qualsivoglia grandezza e di gravità simile in ispezie all’acqua: è manifesto che, messo leggiermente nell’acqua, resterà senza sommergersi, e fuor dell’acqua avanzerà la punta AST, d’altezza tripla all’altezza dell’argine ES. Intendasi ora essere il cono ABD abbassato più, sì che avanzi solamente fuor dell’acqua la punta AIR, alta per la metà della punta AST, con l’arginetto attorno CIRN. E perché il cono AST al cono AIR è come il cubo della linea ST al cubo della linea IR; ma il cilindro ESTO al cilindro CIRN è come il quadrato di ST al quadrato IR; sarà il cono AST ottuplo al cono AIR, e ’l cilindro ESTO quadruplo al cilindro CIRN: ma il cono AST è eguale al cilindro ESTO: adunque il cilindro CIRN sarà doppio al cono AIR, e l’acqua, che si conterrebbe dentro all’arginetto CIRN, doppia in mole e in peso al cono AIR, e però potente a sostenere il doppio del peso del cono AIR. Adunque, se a tutto ’l cono ABD s’accrescerà tanto peso quanto è la gravità del cono AIR, cioè quant’è l’ottava parte del peso del cono AST, potrà bene ancora esser [p. 120 modifica] sostenuto dall’arginetto CIRN; ma senza quello andrà al fondo, essendosi, per l’aggiunta del peso eguale all’ottava parte del peso del cono AST, reso il cono ABD più grave in ispecie dell’acqua. Ma se l’altezza del cono AIR fusse due terzi dell’altezza del cono AST, sarebbe il cono AST al cono AIR come 27 a 8, e ’l cilindro ESTO al cilindro CIRN come 9 a 4, cioè come 27 a 12, e però il cilindro CIRN al cono AIR come 12 a 8, e l’eccesso del cilindro CIRN sopra ’l cono AIR al cono AST come 4 a 27: adunque se al cono ABD s’aggiugnerà tanta gravità quant’è li 4 ventisettesimi del peso del cono AST, che è un poco più della sua settima parte, resterà ancora a galla, e l’altezza della emergente sarà doppia dell’altezza dell’arginetto. Questo, che s’è dimostrato ne’ coni, accade precisamente nelle piramidi, ancor che e gli uni e l’altre fossero acutissime: dal che si conclude, che il medesimo accidente accadrà tanto più agevolmente in tutte l’altre figure, quanto in meno acute sommità vanno a terminare, venendo aiutate da argini più spaziosi.

Tutte le figure adunque, di qualunque grandezza, possono andare e non andare al fondo, secondo che le lor sommità si bagneranno o non si bagneranno: ed essendo questo accidente comune a tutte le sorte di figure, senza eccettuarne pur una, adunque la figura non ha parte alcuna nella produzion di quest’effetto, dell’andare alcuna volta al fondo e alcun’altra no, ma solamente l’essere ora congiunte con l’aria sopreminente e ora separate. La qual cagione, in fine, chi rettamente e, come si dice, con amendue gli occhi considererà questo negozio, conoscerà che si riduce, anzi che realmente è la stessa vera naturale e primaria cagione del soprannotare o andare al fondo, cioè l’eccesso o mancamento della gravità dell’acqua verso la gravità di quella mole corporea che si mette nell’acqua. Perché, sì come una falda di piombo grossa come una costola di coltello, che per sé sola messa nell’acqua, va al fondo, se sopra se le n’attaccherà una di suvero grossa quattro dita, resta a galla, perché ora il solido che si pone in acqua non è altramente, come prima, più grave dell’acqua, ma meno; così la tavoletta d’ebano, per sua natura più grave dell’acqua, e però discendente in fondo quando per sé sola sia posta in acqua, se si poserà sopra l’acqua congiunta con un suolo d’aria, la quale insieme con l’ebano vada abbassandosi, e che sia tanta che con quello faccia un composto men grave di tanta acqua in mole quanta [p. 121 modifica]è la mole già abbassata e sommersa sotto il livello della superficie dell’acqua, non andrà altramente, ma si fermerà, non per altra cagione che per la universale e comunissima, che è che le moli corporee men gravi in ispecie che l’acqua non vanno al fondo. Onde, chi pigliasse una piastra di piombo, grossa, per esemplo, un dito e larga un palmo per ogni verso, e tentasse di farla restare a galla col posarla leggiermente, perderebbe ogni fatica, perché, quando si fosse profondata un capello più che la possibile altezza degli arginetti dell’acqua, si ricoprirebbe e profonderebbe: ma se, mentre che ella si va abbassando, alcuno le andasse fabbricando intorno intorno alcune sponde che ritenessero lo spargimento dell’acqua sopra essa piastra, le quali sponde si alzassero tanto, che dentro di loro potesse capir tant’acqua che pesasse quanto la detta piastra, ella, senza alcun dubbio, non si profonderebbe più, ma resterebbe sostenuta in virtù dell’aria contenuta dentro alle già dette sponde; ed in somma si sarebbe formato un vaso col fondo di piombo. Ma se la sottigliezza del piombo sarà tale, che pochissima altezza di sponde bastasse per circondar tant’aria che potesse mantenerlo a galla, e’ resterà anche senza le sponde, ma non già senza l’aria; perché l’aria da per sé stessa si fa sponde, bastanti, per piccola altezza, a ritener lo ’ngombramento dell’acqua; onde quello che ’n questo caso galleggia, è pure un vaso ripieno d’aria, in virtù della quale resta senza sommergersi.

Voglio, per ultimo, con un’altra esperienza tentar di rimuovere ogni difficultà, se pur restasse ancora, appresso qualcuno, dubbio circa l’operazione di questa continuazion dell’aria con la sottil falda che galleggia, e poi por fine a questa parte del mio Discorso.

Io mi fingo d’essere in questione con alcuno degli avversarii, se la figura abbia azione alcuna circa l’accrescere o diminuire la resistenza in alcun peso all’essere alzato nell’aria; e pongo di voler sostener la parte affermativa, affermando che una mole di piombo, ridotto in figura d’una palla, con manco forza s’alzerà che se il medesimo fusse fatto in una sottilissima e larghissima falda, come quello che in questa figura spaziosa ha da fender gran quantità d’aria, e in quella più ristretta e raccolta, pochissima. E per mostrar come tal mio parer sia vero, sospendo da un sottil filo, prima, la palla, e quella pongo nell’acqua, legando il filo, che la regge, ad uno de’ bracci della bilancia, la quale tengo in aria, e all’altra lance vo [p. 122 modifica] aggiugnendo tanto peso, che finalmente sollevi la palla del piombo e l’estragga fuor dell’acqua; per che fare vi bisognano, v. g., 30 once di peso: riduco poi il medesimo piombo in una falda piana e sottile, la qual pongo parimente nell’acqua, sospesa con 3 fili, li quali la sostengano parallela alla superficie dell’acqua; e aggiugnendo, nello stesso modo, pesi nell’altra lance, sin che la falda venga alzata ed estratta fuori dell’acqua, mostro che once 36 non son bastanti di separarla dall’acqua e sollevarla per aria: e sopra tale esperienza fondato, affermo d’aver pienamente dimostrata la verità della mia proposizione. Si fa l’avversario innanzi e, faccendomi abbassare alquanto la testa, mi fa veder cosa della quale io non m’era prima accorto, e mi mostra che, nell’uscir che fa la falda fuor dell’acqua, ella si tira dietro un’altra falda d’acqua, la quale, avanti che si divida e separi dalla inferior superficie della falda di piombo, si eleva sopra il livello dell’altr’acqua più che una costola di coltello: torna poi a rifar l’esperienza con la palla, e mi fa veder che pochissima quantità d’acqua è quella che s’attacca alla sua figura stretta e raccolta: mi soggiugne poi, che non è maraviglia se nel separar la sottile e larghissima falda dall’acqua si senta molto maggior resistenza che nel separar la palla, poiché insieme con la falda si ha da alzar gran quantità d’acqua, il che non accade nella palla. Fammi, oltr’a ciò, avvertito, come la nostra quistione è, se la resistenza all’esser sollevato si ritrova maggiore in una spaziosa falda di piombo che in una palla, e non se più resista una falda di piombo con gran quantità d’acqua che una palla con pochissima acqua. Mostrami, in fine, che il por prima la falda e la palla in acqua, per far prova poi delle loro resistenze in aria, è fuor del caso nostro, li quali trattiamo del sollevare in aria e cose locate in aria, e non della resistenza che si fa ne’ confini dell’aria e dell’acqua e da cose che sieno parte in aria e parte in acqua; e finalmente mi fa toccar con mano, che quando la sottil falda è in aria e libera dal peso dell’acqua, con la stessa forza a capello si solleva che la palla. Io, vedute e intese queste cose, non so che altro fare se non chiamarmi persuaso, e ringraziar l’amico d’avermi fatto capace di quello di che per l’addietro non mi era accorto; e da tale accidente avvertito, dire a gli avversarii, che la nostra quistione è, se egualmente vada al fondo nell’acqua una palla e una tavola d’ebano, e non una palla d’ebano e una tavola d’ebano congiunta con un’altra [p. 123 modifica]tavola d’aria; e, più, che noi parliamo dell’andare o non andare al fondo nell’acqua, e non di quello che accaggia ne’ confini dell’acqua e dell’aria a’ corpi che sieno parte in aria e parte in acqua; né meno trattiamo della maggiore o minor forza che si ricerchi nel separar questo o quel corpo dall’aria; non tacendo loro, in ultimo, che tanto per appunto resiste e, per così dire, pesa l’aria all’in giù nell’acqua, quanto pesi e resista nell’acqua all’in su nell’aria, e che la stessa fatica ci vuole a mandar sott’acqua un utre pien d’aria che ad alzarlo in aria pien d’acqua, rimossa però la considerazion del peso della pelle e considerando l’acqua e l’aria solamente. E, parimente, è vero che la stessa fatica si ricerca per mandare, spignendo a basso, un bicchiere e simil vaso sotto l’acqua, mentre è pieno d’aria, che a sollevarlo sopra la superficie dell’acqua, tenendolo con la bocca in giù, mentre egli sia pieno d’acqua; la quale nello stesso modo è costretta a seguitare il bicchiere, che la contiene, e alzarsi sopra l’altr’acqua nella region dell’aria, che vien forzata l’aria a seguire il medesimo vaso sotto a’ confini dell’acqua, sin che in questo caso l’acqua, sopraffacendo gli orli del bicchiere, vi precipita dentro, scacciandone l’aria, e in quello, uscendo il medesimo orlo fuori dell’acqua e pervenendo a’ confini dell’aria, l’acqua casca a basso e l’aria sottentra a riempiere la cavità del vaso. Al che ne séguita, che non meno trapassi i limiti delle convenzioni quello che produce una tavola congiunta con molta aria, per vedere se discende al fondo nell’acqua, che quello che fa prova della resistenza all’esser sollevato in aria con una falda di piombo congiunta con altrettanta acqua.

Ho detto quanto m’è venuto in mente, per mostrar la verità della parte che ho preso a sostenere: restami da considerar ciò che in tale materia scrive Aristotile, nel fine de’ libri Del cielo. Nel qual particolare io noterò due cose: l’una, che essendo vero, come s’è dimostrato, che la figura non ha che fare circa ’l semplicemente muoversi o non muoversi in su o in giù, pare che Aristotile nel primo ingresso di questa speculazione abbia avuto la medesima oppinione, sì come dall’essaminar le sue parole parmi che si possa raccorre: bene è vero che, nel voler poi render la ragione di tal effetto, come quegli che non l’ha, per quant’io stimo, bene incontrata, il che nel secondo luogo andrò esaminando, par che si riduca ad ammetter l’ampiezza della figura a parte di quest’operazione. [p. 124 modifica]

Quanto al primo punto, ecco le parole precise d’Aristotile: «Le figure non son cause del muoversi semplicemente in giù o in su, ma del muoversi più tardo o più veloce; e per quali cagioni ciò accaggia, non è difficile il vederlo».

Qui, primieramente, io noto che, essendo quattro i termini che cascono nella presente considerazione, cioè moto, quiete, tardo e veloce, e nominando Aristotile le figure come cause del tardo e del veloce, escludendole dall’esser cause del moto assoluto e semplice, par necessario che egli l’escluda altresì dall’esser cause di quiete; sì che la mente sua sia stata il dire: Le figure non son cause del muoversi assolutamente o non muoversi, ma del tardo e del veloce. Imperocché, se alcuno dicesse, la mente d’Aristotile esser d’escluder ben le figure dall’esser cause di moto, ma non già dall’esser cause di quiete, sì che il senso fosse di rimuovere dalle figure l’esser cause del muoversi semplicemente, ma non già l’esser cause del quietarsi; io domanderei, se si dee con Aristotile intendere che tutte le figure universalmente sieno in qualche modo cause della quiete in quei corpi che per altro si moverebbono, o pure alcune particolari solamente, come, per esempio, le figure larghe e sottili. Se tutte indifferentemente, adunque ogni corpo quieterà, perché ogni corpo ha qualche figura; il che è falso: ma se alcune particolari solamente potranno essere in qualche modo causa di quiete, come, v. g., le larghe, adunque le altre saranno in qualche modo causa di muoversi; perché, se dal vedere alcuni corpi di figura raccolta muoversi, che poi, dilatati in falde, si fermano, posso inferir l’ampiezza della figura essere a parte nella causa di tal quiete, così dal veder simil falde quietare, che poi raccolte si muovono, potrò con pari ragione affermare, la figura unita e raccolta aver parte nel cagionare ’l moto, come rimovente di chi l’impediva; il che è poi dirittamente opposto a quello che dice Aristotile, cioè che le figure non son cause del muoversi. In oltre, se Aristotile avesse ammesse, e non escluse, le figure all’esser cause del non muoversi in alcuni corpi, che figurati d’altra figura si moverebbono, male a proposito avrebbe, nelle parole immediatamente seguenti, proposto con modo dubitativo, “onde avvenga che le falde larghe e sottili di ferro o di piombo si fermino sopra l’acqua”, già che la causa era in pronto, cioè l’ampiezza della figura. Concludasi, dunque, che ’l concetto d’Aristotile in questo luogo sia d’affermare che le figure non sien cause [p. 125 modifica] del muoversi assolutamente o non muoversi, ma solamente del muoversi velocemente o tardamente: il che si dee tanto più credere, quanto che, in effetto, è sentenza e concetto verissimo. Ora, essendo tale la mente d’Aristotile, e’ apparendo, in conseguenza, più presto contraria, nel primo aspetto, che favorevole al detto degli avversari, è forza che la ’nterpretazion loro non sia precisamente tale, ma quale in parte intesi da alcun di essi, e ’n parte da altri fu referto; e agevolmente si può stimare esser così, essendo esplicazione conforme al senso d’interpreti celebri: ed è, che l’avverbio semplicemente o assolutamente, posto nel testo, non si debba congiungere col verbo muoversi, ma co ’l nome cause; sì che il sentimento delle parole d’Aristotile sia l’affermare che le figure non son cause assolutamente del muoversi o non muoversi, ma son ben cause secundum quid, cioè in qualche modo, per lo che vengon nominate cause aiutrici e concomitanti. E tal proposizione vien ricevuta e posta per vera dal Sig. Buonamico nel lib. 5, cap. 28, dove egli scrive così: «Sono altre cause concomitanti, per le quali alcune cose galleggiano e altre si sommergono, tra le quali il primo luogo ottengon le figure de’ corpi, ec.».

Intorno a tal esposizione mi nascon diversi dubbi e difficultà, per le quali mi par che le parole d’Aristotile non sien capaci di simil costruzione e sentimento. E le difficultà son queste.

Prima, nell’ordine e disposizion delle parole d’Aristotile la particula simpliciter o, vogliamo dire, absolute è attaccata col verbo si muovono, e separata dalla parole cause: il che è gran presunzione a favor mio; poiché la scrittura e ’l testo dice: «Le figure non son cause del muoversi semplicemente in su o in giù, ma sì bene del più tardo o più veloce»; e non dice: «Le figure non sono semplicemente cause del muoversi in su o in giù»; e quando le parole d’un testo ricevono, trasposte, senso differente da quello ch’elle suonano portate con l’ordine in che l’autor le dispose, non conviene il permutarle. E chi vorrà affermare che Aristotile, volendo scrivere una proposizione, disponesse le parole in modo ch’elle importassero un sentimento diversissimo, anzi contrario? contrario, dico, perché, intese com’elle sono scritte, dicono che le figure non son cause del muoversi; ma trasposte, dicono le figure esser causa del muoversi, ec.

Di più, se la ’ntenzione d’Aristotile fusse stata di dire che le figure non son semplicemente cause del muoversi in su o in giù, ma [p. 126 modifica] solamente cause secundum quid, non occorreva che soggiugnesse quelle parole «ma son cause del più veloce o più tardo». Anzi, il soggiugner questo sarebbe stato non solo superfluo, ma falso: conciossiaché tutto il corso della proposizione importerebbe questo: «Le figure non son causa assoluta del muoversi in su o in giù, ma son ben causa assoluta del tardo o del veloce»: il che non è vero; perché le cause primarie del più o men veloce vengon da Aristotile, del 4 della Fisica, al testo 71, attribuite alla maggiore o minor gravità de’ mobili, paragonati tra di loro, e alla maggiore o minor resistenza de’ mezzi, dependente dalla lor maggiore o minor crassizie; e queste vengon poste da Aristotile come cause primarie, e queste due sole vengono in quel luogo nominate; e la figura vien poi considerata, al t. 74, più presto come causa strumentaria della forza della gravità, la quale divide o con la figura o con l’impeto; e veramente la figura per sé stessa, senza la forza della gravità o leggerezza, non opererebbe niente.

Aggiungo che, se Aristotile avesse avuto concetto che la figura fusse stata in qualche modo causa del muoversi o non muoversi, il cercare, ch’e’ fa immediatamente, in forma di dubitare, onde avvenga che una falda di piombo soprannuoti, sarebbe stato a sproposito: perché, se all’ora all’ora egli aveva detto che la figura era in certo modo causa del muoversi o non muoversi, non occorreva volgere in dubbio per qual cagion la falda di piombo galleggi, attribuendone poi la causa alla figura, e formando un discorso in questa maniera: «La figura è causa secundum quid del non andare al fondo: ma ora si dubita, per qual cagione una sottil falda di piombo non vada al fondo; si risponde, ciò provenire dalla figura»; discorso che sarebbe indecente ad un fanciullo, non che ad Aristotile. E dove è la occasione di dubitare? e chi non vede che, quando Aristotile avesse stimato che la figura fosse in qualche modo causa del soprannotare, avrebbe, senza la forma di dubitare, scritto: «La figura è causa in certo modo del soprannotare; e però la falda di piombo, rispetto alla sua figura sparsa e larga, soprannuota»? Ma se noi prenderemo la proposizione d’Aristotile come dico io e come è scritta, e come in effetto è vera, il progresso suo cammina benissimo, sì nell’introduzione del veloce e del tardo, come nella dubitazione, la qual molto a proposito ci cade; e dirà così: «Le figure non son cause del muoversi o non muoversi semplicemente in su o in giù, ma sì bene del muoversi più veloce o più [p. 127 modifica] tardo: ma se così è, si dubita della causa onde avvenga che una falda larga e sottile di ferro o di piombo soprannuoti, ec.». E l’occasion del dubitare è in pronto, perché pare, al primo aspetto, che di questo soprannotare ne sia causa la figura, poiché lo stesso piombo, o minor quantità, ma d’altra figura, va al fondo: e noi già abbiamo affermato, che la figura non ha azione in questo effetto.

Finalmente, se la ’ntenzion d’Aristotile in questo luogo fusse stata di dir che le figure, benché non assolutamente, sieno al manco in qualche modo cagion del muoversi o non muoversi, io metto in considerazione che egli nomina non meno il movimento all’in su, che l’altro all’in giù: e perché, nell’esemplificarlo poi, non si produce altr’esperienza che d’una falda di piombo e d’una tavoletta d’ebano, materie che per lor natura vanno in fondo, ma in virtù (come essi dicono) della figura restano a galla, converrebbe che chi che sia producesse alcun’altra esperienza di quelle materie che per lor natura vengono a galla, ma ritenute dalla figura restano in fondo. Ma già che quest’è impossibile a farsi, concludiamo che Aristotile in questo luogo non ha voluto attribuire azione alcuna alla figura, nel semplicemente muoversi o non muoversi.

Che poi egli abbia esquisitamente filosofato nell’investigar le soluzioni de’ dubbi ch’ei propone, non torre’io già a sostenere; anzi varie difficultà, che mi si rappresentano, mi danno occasione di dubitare ch’ei non ci abbia interamente spiegata la vera cagion della presente conclusione. Le quali diffucultà io andrò movendo, pronto al mutar credenza, qualunque volta mi sia mostrato, altra, da quel ch’io dico, esser la verità; alla confession della quale son molto più accinto, che alla contraddizione.

Proposta che ha Aristotile la quistione «onde avvenga che le falde larghe di ferro o di piombo soprannuotino», soggiugne (quasi fortificando l’occasion del dubitare): «conciosia che altre cose minori e manco gravi, se saranno rotonde o lunghe, come sarebbe un ago, vanno al fondo». Or qui dubito, anzi pur son certo, che un ago, posato leggiermente su l’acqua, resti a galla, non meno che le sottili falde di ferro e di piombo.

Io non posso credere, ancorché stato mi sia referto, che alcuno, per difendere Aristotile, dicesse che egli intende d’un ago messo non per lo lungo, ma eretto e per punta: tuttavia, per non [p. 128 modifica] lasciare anche tal refugio, benché debolissimo e quale anche Aristotile medesimo, per mio credere, ricuserebbe, dico che si dee intender che l’ago sia posato secondo la dimensione che vien nominata da Aristotile, che è la lunghezza. Perché, se altra dimensione che la nominata prender si potesse e dovesse, io direi che anche le falde di ferro e di piombo vanno al fondo, se altri le metterà per taglio e non per piano: ma perché Aristotile dice «le figure larghe non vanno al fondo», si dee intender «posate per lo largo»: e però quando dice «le figure lunghe, come un ago, benché leggieri, non restano a galla», si dee intender «posate per lo lungo».

Di più, il dir che Aristotile intese dell’ago messo per punta, é un fargli dire una sciocchezza grande: perché in questo luogo dice che piccole particelle di piombo o ferro, se saranno rotonde o lunghe com’un ago, vanno in fondo, tal che, anco per suo credere, un granello di ferro non può restare a galla; e se egli così credette, qual semplicità sarebbe stata il soggiugnere, che né anco un ago, messo eretto, vi sta? e che altro è un ago tale, che molti sì fatti grani posti l’un sopra l’altro? Troppo indegno di tant’uomo era il dir, che un sol grano di ferro non può galleggiare, e che né anco galleggerebbe a porgliene cento altri addosso.

Finalmente, o Aristotile credeva che un ago, posato su l’acqua per lo lungo, restasse a galla; o credeva ch’e’ non restasse. S’ei credeva ch’e’ non restasse, ha ben potuto anche dirlo, come veramente l’ha detto: ma s’e’ credeva e sapeva ch’e’ soprannotasse, per qual cagione, insieme col problema dubitativo del galleggiar le figure larghe, benché di materia grave, non ha egli anche introdotta la dubitazione, ond’avvegna che anche le figure lunghe e sottili, benché di ferro o di piombo, soprannuotano? e massimamente che l’occasion del dubitare par maggiore nelle figure lunghe e strette che nelle larghe e sottili; sì come dal non n’aver dubitato Aristotile si fa manifesto.

Non minore sproposito addosserebbe ad Aristotile chi, per difenderlo, dicesse che egli intese di un ago assai grosso, e non di un sottile: perché io pur domanderò ciò ch’e’ credette d’un ago sottile, e bisognerà risponder ch’e’ credesse ch’e’ galleggiasse; ed io di nuovo l’accuserò dell’avere sfuggito un problema più maraviglioso e difficile, ed introdotto il più facile e di meraviglia minore.

Diciamo, dunque, pur liberamente, che Aristotile ha creduto che [p. 129 modifica] le figure larghe solamente stessero a galla; ma le lunghe e sottili, com’un ago, no: il che tuttavia è falso, come falso è ancor de’ corpi rotondi; perché, come dalle cose di sopra dimostrate si può raccorre, piccoli globetti di ferro, e anche di piombo, nello stesso modo galleggiano.

Propone poi un’altra conclusione, che similmente par diversa dal vero: ed è, che alcune cose per la lor piccolezza nuotano nell’aria, come la minutissima polvere di terra e le sottili foglie dell’oro battuto. Ma a me pare che la sperienza ci mostri, ciò non accadere non solamente nell’aria, ma né anche nell’acqua; nella quale discendono sino a quelle particole di terra che la ’ntorbidano, la cui piccolezza è tale che non si veggono, se non quando son molte centinaia insieme. La polvere, dunque, di terra, e l’oro battuto, non si sostiene altramente in aria, ma discende al basso, e solamente vi va vagando quando venti gagliardi la sollevano o altra agitazione di aria la commuove: il che anche avviene nella commozione dell’acqua, per la quale si solleva la sua deposizione dal fondo, e s’intorbida. Ma Aristotile non può intender di questo impedimento della commozione, del quale egli non fa menzione; né nomina altro che la leggerezza di tali minimi, e la resistenza della crassizie dell’acqua e dell’aria: dal che si vede che egli tratta dell’aria quieta, e non agitata e commossa; ma, in tal caso, né oro né terra, per minutissimi che sieno, si sostengono, anzi speditamente discendono.

Passa poi al confutar Democrito, il qual, per sua testimonianza, voleva che alcuni atomi ignei, li quali continuamente ascendono per l’acqua, spignessero in su e sostenessero quei corpi gravi che fossero molto larghi, e che gli stretti scendessero al basso, perché poca quantità de’ detti atomi contrasta loro e repugna.

Confuta, dico, Aristotile questa posizione, dicendo che ciò doverrebbe molto più accader nell’aria; sì come il medesimo Democrito insta contro di sé, ma, dopo aver mossa l’instanza, la scioglie lievemente, con dire che quei corpuscoli, che ascendono in aria, fanno impeto non unitamente. Qui io non dirò che la cagione addotta da Democrito sia vera: ma dirò solo, parermi che non interamente venga confutata da Aristotile, mentr’egli dice che, se fusse vero che gli atomi calidi, che ascendono, sostenessero i corpi gravi, ma assai larghi, ciò dovrieno far molto più nell’aria che nell’acqua; perché forse, per [p. 130 modifica] opinion d’Aristotile, i medesimi corpuscoli calidi con maggior forza e velocità sormontano per l’aria che per l’acqua. E se questa è, sì come io credo, l’instanza d’Aristotile, parmi d’aver cagione di dubitar ch’e’ possa essersi ingannato in più d’un conto.

Prima: perché que’ calidi, o sieno corpuscoli ignei, o sieno esalazioni, o in somma sieno qualunque materia che anche in aria ascenda in su, non è credibile che più velocemente salgano per l’aria che per l’acqua; anzi, all’incontro, per avventura, più impetuosamente si muovono per l’acqua che per l’aria, come in parte di sopra ho dimostrato. E qui non so scorger la cagione, per la quale Aristotile, vedendo che ’l moto all’in giù, dello stesso mobile, è più veloce nell’aria che nell’acqua, non ci abbia fatti cauti che del moto contrario dee accader l’opposito di necessità, cioè ch’e’ sia più veloce nell’acqua che nell’aria: perché, avvenga che ’l mobile, che discende, più velocemente si muove per l’aria che per l’acqua, se noi c’immagineremo che la sua gravità si vada gradatamente diminuendo, egli prima diverrà tale che, scendendo velocemente nell’aria, tardissimamente scenderà nell’acqua; di poi potrà esser tale che, scendendo pure ancora per l’aria, ascenda nell’acqua; e fatto ancora men grave, ascenderà velocemente per l’acqua, e pur discenderà ancora per l’aria; e in somma, avanti ch’ei cominci a potere ascender, benché tardissimamente, per l’aria, velocissimamente sormonterà per l’acqua. Come dunque è vero, che quel che si muove all’in su, più velocemente si muova per l’aria che per l’acqua? Quel ch’ha fatto credere ad Aristotile, il moto in su farsi più velocemente in aria che in acqua, è stato, prima, l’aver riferite le cause del tardo e del veloce, tanto del moto in su quanto dello in giù, solamente alla diversità delle figure del mobile e alla maggiore o minor resistenza della maggior o minor crassizie o sottilità del mezzo, non curando la comparazion degli eccessi delle gravità de’ mobili e de’ mezzi: la qual tuttavia è ’l punto principalissimo in questa materia. Che se l’incremento e ’l decremento della tardità o velocità non avessero altro rispetto che alla grossezza o sottilità de’ mezzi, ogni mobile, che scendesse per l’aria, scenderebbe anche per l’acqua: perché qualunque differenza si ritrovi tra la crassizie dell’acqua e quella dell’aria, può benissimo ritrovarsi tra la velocità dello stesso mobile nell’aria e qualche altra velocità; e questa dovrebbe esser sua propria nell’acqua: il che tuttavia è falsissimo. L’altra occasione è, che egli ha [p. 131 modifica] creduto che, sì come c’è una qualità positiva e intrinseca per la quale i corpi elementari hanno propensione di muoversi verso il centro della terra, così ce ne sia un’altra, pure intrinseca, per la quale alcuni di tali corpi abbiano impeto di fuggire ’l centro e muoversi all’in su, in virtù del qual principio intrinseco, detto da lui leggierezza, i mobili di tal moto più agevolmente fendano i mezzi più sottili che i più crassi: ma tal posizione mostra parimente di non esser sicura, come di sopra accennai in parte, e come con ragioni ed esperienze potrei mostrare, se l’occasion presente n’avesse maggior necessità, o se con poche parole potessi spedirmi.

L’instanza, dunque, di Aristotile contro a Democrito, mentre dice che, se gli atomi ignei ascendenti sostenessero i corpi gravi ma di figura larga, ciò dovrebbe avvenire maggiormente nell’aria che nell’acqua, perché tali corpuscoli più velocemente si muovono in quella che in questa, non è buona; anzi dee appunto accader l’opposito, perché più lentamente ascendono per l’aria: e, oltre al muoversi lentamente, non vanno uniti insieme, come nell’acqua, ma si discontinuano e, come diciamo noi, si sparpagliano; e però, come ben risponde Democrito risolvendo l’instanza, non vanno a urtare e fare impeto unitamente.

S’inganna, secondariamente, Aristotile, mentre e’ vuole che detti corpi gravi più agevolmente fossero da calidi ascendenti sostenuti nell’aria che nell’acqua: non avvertendo che i medesimi corpi sono molto più gravi in quella che in questa, e che tal corpo peserà dieci libre in aria, che nell’acqua non peserà mezz’oncia; come, dunque, dovrà esser più agevole il sostenerlo nell’aria che nell’acqua?

Concludasi, per tanto, che Democrito in questo particolare ha meglio filosofato che Aristotile. Ma non però voglio io affermare che Democrito abbia rettamente filosofato, anzi pure dirò io che c’è esperienza manifesta che distrugge la sua ragione: e questa è che, s’e’ fosse vero che atomi caldi ascendenti nell’acqua sostenessero un corpo che, senza ’l loro ostacolo, anderebbe al fondo, ne seguirebbe che noi potessimo trovare una materia pochissimo superiore in gravità all’acqua, la quale, ridotta in una palla o altra figura raccolta, andasse al fondo, come quella che incontrasse pochi atomi ignei, e che, distesa poi in una ampia e sottil falda, venisse sospinta in alto dalle impulsioni di gran moltitudine de’ medesimi corpuscoli, e poi trattenuta al pelo della [p. 132 modifica] superficie dell’acqua; il che non si vede accadere, mostrandoci l’esperienza che un corpo di figura, v. g., sferica, il quale a pena e con grandissima tardità va al fondo, vi resterà e vi discenderà ancora, ridotto in qualunque altra larghissima figura. Bisogna dunque dire, o che nell’acqua non sieno tali atomi ignei ascendenti, o, se vi sono, che non sieno potenti a sollevare e spignere in su alcuna falda di materia che, senza loro, andasse al fondo. Delle quali due posizioni io stimo che la seconda sia vera, intendendo dell’acqua constituita nella sua natural freddezza: ma se noi piglieremo un vaso, di vetro o di rame o di qual si voglia altra materia dura, pieno d’acqua fredda, dentro la quale si ponga un solido di figura piana o concava, ma che in gravità ecceda l’acqua così poco che lentamente si conduca al fondo, dico che, mettendo alquanti carboni accesi sotto il detto vaso, come prima i nuovi corpuscoli ignei, penetrata la sustanzia del vaso, ascenderanno per quella dell’acqua, senza dubbio, urtando nel solido sopraddetto, lo spigneranno sino alla superficie, e quivi lo tratterranno sin che dureranno le incursioni de’ detti corpuscoli; le quali cessando dopo la suttrazion del fuoco, tornerà il solido al fondo, abbandonato da’ suoi puntelli. Ma nota Democrito, che questa causa non ha luogo se non quando si tratti d’alzare e sostenere falde di materie poco più gravi dell’acqua o vero sommamente sottili; ma in materie gravissime e di qualche grossezza, come falde di piombo o d’altri metalli, cessa totalmente un tale effetto. In testimonio di che, notisi che tali falde, sollevate da gli atomi ignei, ascendono per tutta la profondità dell’acqua e si fermano al confin dell’aria, restando però sott’acqua; ma le falde degli avversari non si fermano se non quando hanno la superficie superiore asciutta, né vi è mezzo d’operare che, quando sono dentr’all’acqua, non calino al fondo. Altra, dunque, è la causa del soprannotare le cose delle quali parla Democrito, e altra quella delle cose delle quali parliamo noi.

Ma, tornando ad Aristotile, parmi che egli assai più freddamente confuti Democrito, che lo stesso Democrito non fa, per detto d’Aristotile, l’istanze che egli si muove contro: e l’oppugnarlo con dire che, se i calidi ascendenti fossero quelli che sollevassero le sottil falde, molto più dovrebbe un tal solido esser sospinto e sollevato per aria, mostra in Aristotile la voglia d’atterrar Democrito superiore all’esquisitezza del saldo filosofare. Il qual desiderio in altre occasioni [p. 133 modifica] si scuopre, e, senza molto discostarsi da questo luogo, nel testo precedente a questo capitolo che abbiamo per le mani: dov’ei tenta pur di confutare il medesimo Democrito, perché egli, non si contentando del nome solo, aveva voluto più particolarmente dichiarare che cosa fusse la gravità e la leggerezza, cioè la causa dell’andare in giù e dell’ascendere, e aveva introdotto il pieno e ’l vacuo, dando questo al fuoco, per lo quale si movesse in su, e quello alla terra, per lo quale ella discendesse, attribuendo poi all’aria più del fuoco e all’acqua più della terra. Ma Aristotile, volendo anche del moto all’in su una causa positiva e non, come Platone o questi altri, una semplice negazione o privazione, qual sarebbe il vacuo referito al pieno, argomenta contro a Democrito, e dice: Se è vero quanto tu supponi, adunque sarà una gran mole d’acqua la quale avrà più di fuoco che una piccola mole d’aria, e una grande d’aria che avrà più terra che una piccola d’acqua; il perché bisognerebbe che una gran mole d’aria venisse più velocemente a basso che una piccola quantità d’acqua: ma ciò non si vede mai in alcun modo: adunque Democrito erroneamente discorre. Ma, per mia opinione, la dottrina di Democrito non resta per tale instanza abbattuta; anzi, s’io non erro, la maniera di dedurre d’Aristotile o non conclude, o, se è concludente, altrettanto si potrà ritorcer contro di lui. Concederà Democrito ad Aristotile, che si possa pigliare una gran mole d’aria, la quale contenga più di terra che una piccola quantità d’acqua; ma ben negherà che tal mole d’aria sia per andar più velocemente a basso che una poca acqua: e questo per più ragioni. Prima, perché, se la maggior quantità di terra, contenuta nella gran mole d’aria, dovesse esser cagione di velocità maggiore che minor quantità di terra contenuta nella piccola mole d’acqua, bisognerebbe prima che fusse vero che una maggior mole di terra semplice si movesse più velocemente che una minore: ma quest’è falso, benché Aristotile in più luoghi l’affermi per vero; perché non la maggior gravità assoluta, ma la maggior gravità in ispecie, è cagione di velocità maggiore; né più velocemente discende una palla di legno che pesi dieci libbre, che una che pesi dieci once e sia della stessa materia; ma ben discende più velocemente una palla di piombo di quattro once, che una di legno di venti libbre, perché ’l piombo è in ispecie più grave del legno: adunque non è necessario che una gran mole d’aria, per la molta terra contenuta in essa, [p. 134 modifica] discenda più velocemente che piccola mole d’acqua; anzi, per l’opposito, qualunque mole d’acqua dovrà muoversi più veloce di qualunque altra d’aria, per esser la participazion della parte terrea in ispecie maggior nell’acqua che nell’aria. Notisi, nel secondo luogo, come, nel multiplicar la mole dell’aria, non si multiplica solamente quello che vi è di terreo, ma il suo fuoco ancora: onde non meno se le cresce la causa dell’andare in su, in virtù del fuoco, che quella del venire all’ingiù, per conto della sua terra multiplicata. Bisognava, nel crescer la grandezza dell’aria, multiplicar quello che ella ha di terreo solamente, lasciando il suo primo fuoco nel suo stato: ché allora, superando ’l terreo dell’aria augumentata la parte terrea della piccola quantità dell’acqua, si sarebbe potuto più verisimilmente pretender che con impeto maggiore dovesse scender la molta quantità dell’aria che la poca acqua. È, dunque, la fallacia più nel discorso d’Aristotile che in quello di Democrito; il quale, con altrettanta ragione, potrebbe impugnare Aristotile, e dire: Se è vero che gli estremi elementi sieno l’uno semplicemente grave e l’altro semplicemente lieve, e che i medii partecipino dell’una e dell’altra natura, ma l’aria più della leggerezza, e l’acqua più della gravità; adunque sarà una gran mole d’aria la cui gravità supererà la gravità d’una piccola quantità d’acqua, e però tal mole d’aria discenderà più velocemente che quella poca acqua: ma ciò non si vede mai accadere: adunque non è vero che gli elementi di mezzo sieno partecipi dell’una e dell’altra qualità. Simile argomento è fallace, non meno che l’altro contr’a Democrito.

Ultimamente, avendo Aristotile detto che, se la posizion di Democrito fusse vera, bisognerebbe che una gran mole d’aria si movesse più velocemente che una piccola d’acqua, e poi soggiunto che ciò non si vede mai in alcun modo; parmi che altri possa restar con desiderio d’intender da lui, in qual luogo dovrebbe accader questo ch’e’ deduce contro a Democrito, e quale esperienza ne insegni ch’e’ non v’accaggia. Il creder di vederlo nell’elemento dell’acqua o ’n quel dell’aria, è vano, perché né l’acqua per acqua né l’aria per aria si muovono o moverebbon giammai, per qualunque participazione altri assegni loro di terra o di fuoco: la terra, per non esser corpo fluido e cedente alla mobilità d’altri corpi, è luogo e mezzo inettissimo a simile esperienza: il vacuo, per detto d’Aristotile medesimo, non si dà, e, benché si desse, nulla si moverebbe in lui: resta la region del [p. 135 modifica] fuoco; ma essendo per tanto spazio distante da noi, quale esperienza potrà assicurarci, o avere accertato Aristotile, in maniera ch’e’ si debba, come di cosa notissima al senso, affermare quanto e’ produce in confutazion di Democrito, cioè che non più velocemente si muova una gran mole d’aria che una piccola d’acqua? Ma io non voglio più lungamente dimorare in questa materia, dove sarebbe che dire assai: e, lasciato anche Democrito da una banda, torno al testo d’Aristotile, nel quale egli si va accingendo per render le vere cause onde avvenga che le sottil falde di ferro o di piombo soprannuotino all’acqua, e più l’oro stesso, assottigliato in tenuissime foglie, e la minuta polvere, non pure nell’acqua, ma nell’aria ancora, vadano notando; e pone che, de’ continui, altri sieno agevolmente divisibili e altri no, e che, degli agevolmente divisibili, alcuni sien più e altri meno tali; e queste afferma dovere stimarsi che sien le cagioni. Soggiugne poi, quello essere agevolmente divisibile che ben si termina, e più quello che più, e tale esser più l’aria che l’acqua, e l’acqua che la terra. E ultimamente suppone, che in ciascun genere più agevolmente si divide e si distrae la minor quantitade che la maggiore.

Qui io noto, che le conclusion d’Aristotile in genere son tutte vere, ma parmi che egli le applichi a particolari ne’ quali esse non hanno luogo, come bene lo hanno in altri: come, v. gr., la cera è più agevolmente divisibile che il piombo, e il piombo che l’argento; sì come la cera più agevolmente riceve tutti i termini che ’l piombo, e ’l piombo che l’argento. È vero, in oltre, che più agevolmente si divide poca quantità d’argento che una gran massa: e tutte queste proposizioni son vere, perché vero è che nell’argento nel piombo e nella cera è semplicemente resistenza all’esser diviso, e dov’è l’assoluto è anche il respettivo. Ma se tanto nell’acqua, quanto nell’aria, non è renitenza alcuna alla semplice divisione, come potremo dire che più difficilmente dividasi l’acqua che l’aria? Noi non ci sappiamo staccare dall’equivocazione: onde io torno a replicare, che altra cosa è il resistere alla divisione assoluta, altra il resistere alla division fatta con tanta e tanta velocità. Ma per far la quiete e ostare al moto, è necessaria la resistenza alla divisione assoluta; e la resistenza alla presta divisione cagiona non la quiete, ma la tardità del moto: ma che tanto nell’aria, quanto nell’acqua, la resistenza alla semplice division non vi sia, è manifesto; perché niun corpo solido si trova, il quale non [p. 136 modifica] divida l’aria e l’acqua ancora. E che l’oro battuto o la minuta polvere non sieno potenti a superar la renitenza dell’aria, è contrario a quello che l’esperienza ci mostra, vedendosi e l’oro e la polvere andar vagando per l’aria e finalmente discendere al basso, e fare anche lo stesso nell’acqua, se vi saranno locati dentro e separati dall’aria. E perché, come io dico, né l’acqua né l’aria resistono punto alla semplice divisione, non si può dir che l’acqua resista più che l’aria. Né sia chi m’opponga l’esemplo di corpi leggerissimi, come d’una penna o d’un poco di midolla di sagginale o di canna palustre che fende l’aria e l’acqua no, e che da questo voglia poi inferire, l’aria esser più agevolmente divisibile che l’acqua: perché io gli dirò che, s’egli ben osserverà, vedrà il medesimo solido dividere ancora la continuità dell’acqua, e sommergersi una parte di lui, e parte tale che altrettanta acqua in mole peserebbe quanto tutto lui. E se pure egli persistesse nel dubitare che tal solido non si profondasse per impotenza di divider l’acqua, io tornerò a dirgli ch’e’ lo spinga sotto acqua, e vedrallo poi, messo ch’e’ l’abbia in sua libertà, divider l’acqua ascendendo, non men prontamente ch’e’ si dividesse l’aria discendendo. Sì che il dire “Questo tal solido scende nell’aria, ma giunto all’acqua cessa di muoversi; e però l’acqua più difficilmente si divide”, non conclude niente; perché io, all’incontro, gli proporrò un legno o un pezzo di cera, il quale dal fondo dell’acqua si eleva e agevolmente si divide la sua resistenza, che poi, arrivato all’aria, si ferma e a pena la intacca; onde io potrò, con altrettanta ragione, dire che l’acqua più agevolmente si divide che l’aria.

Io non voglio, in questo proposito, restar d’avvertire un’altra fallacia di questi pure che attribuiscono la cagion dell’andare o non andare al fondo, alla minore o maggior resistenza della crassizie dell’acqua all’esser divisa, servendosi dell’esemplo d’un uovo, il quale nell’acqua dolce va al fondo, ma nella salsa galleggia, e adducendo per cagion di ciò la poca resistenza dell’acqua dolce all’esser divisa, e la molta dell’acqua salsa. Ma, s’io non erro, dalla stessa esperienza si può non meno dedurre anche tutto l’opposito, cioè che l’acqua dolce sia più crassa, e la salsa più tenue e sottile; poiché un uovo dal fondo dell’acqua salsa speditamente ascende al sommo e divide la sua resistenza, il che non può egli fare nella dolce, nel cui fondo resta senza poter sollevarsi ad alto. A simili angustie conducono i [p. 137 modifica]falsi principii: ma chi, rettamente filosofando, riconoscerà per cagioni di tali effetti gli eccessi della gravità de’ mobili e de’ mezzi, dirà che l’uovo va al fondo nell’acqua dolce perché è più grave di lei, e viene a galla nella salsa perché è men grave di quella; e senza intoppo alcuno molto saldamente stabilirà le sue conclusioni.

Cessa, dunque, totalmente la ragione che Aristotile soggiugne nel testo, dicendo: «Le cose, dunque, che hanno gran larghezza, restano sopra, perché comprendono assai; e quello che è maggiore, non agevolmente si divide»; cessa, dico, tal discorso, perché non è vero che nell’acqua o nell’aria sia resistenza alcuna alla divisione; oltreché la falda di piombo, quando si ferma, ha già divisa e penetrata la crassizie dell’acqua, e profondatasi dieci e dodici volte più che non è la sua propria grossezza. Oltre che, tal resistenza all’esser divisa quando pur fusse nell’acqua, sarebbe semplicità il dir che ella fusse più nelle parti superiori che nelle medie e più basse: anzi, se differenza vi dovesse essere, dovrieno le più crasse esser le inferiori, sì che la falda non meno dovrebbe essere inabile a penetrare le parti più basse, che le superiori dell’acqua; tuttavia noi veggiamo che non prima si bagna la superficie superior della lamina, che ella precipitosamente e senza alcun ritegno discende sino al fondo.

Io non credo già che alcuno (stimando forse di potere in tal guisa difendere Aristotile) dicesse che, essendo vero che la molta acqua resiste più che la poca, la detta lamina, fatta più bassa, discenda perché minor mole d’acqua gli resti da dividere: perché, se dopo l’aver veduta la medesima falda galleggiare in un palmo d’acqua e anche poi nella medesima sommergersi, e’ tenterà la stessa esperienza sopra una profondità di dieci o venti braccia, vedrà seguirne il medesimo effetto per appunto. E qui torno a ricordare, per rimuovere un errore assai comune, che quella nave, o altro qual si voglia corpo, che sopra la profondità di cento o di mille braccia galleggia col tuffar solamente sei braccia della sua propria altezza, galleggerà nello stesso modo appunto nell’acqua che non abbia maggior profondità di sei braccia e un mezzo dito. Né credo altresì che si possa dir, le parti superiori dell’acqua esser le più crasse, benché gravissimo autore abbia stimato, nel mare l’acque superiori esser tali, pigliandone argomento dal ritrovarsi più salate che quelle del fondo: ma io dubiterei dell’esperienza, se già nell’estrar l’acqua del fondo non s’incontrasse [p. 138 modifica] qualche polla d’acqua dolce, che quivi scaturisse: ma ben veggiamo, all’incontro, l’acque dolci de’ fiumi dilatarsi, anche per alcune miglia, oltre alle lor foci sopra l’acqua salsa del mare, senza discendere in quella o con essa confondersi, se già non accade qualche commozione e turbamento de’ venti.

Ma, tornando ad Aristotile, gli dico che la larghezza della figura non ha che fare in questo negozio né punto né poco; perché la stessa falda di piombo, o d’altra materia, fattone strisce quanto si voglia strette, soprannuota né più né meno; e lo stesso faranno le medesime strisce di nuovo tagliate in piccoli quadretti, perché non la larghezza, ma la grossezza, è quella che opera in questo fatto. Dicogli, di più, che, quando ben fusse vero che la renitenza alla divisione fusse la propria cagione del galleggiare, molto e molto meglio galleggerebbono le figure più strette e più corte che le più spaziose e larghe; sì che, crescendo l’ampiezza della figura, si diminuirebbe l’agevolezza del soprannotare, e scemando quella, si crescerebbe questa.

E, per dichiarazione di quanto io dico, metto in considerazione che, quando una sottil falda di piombo discende dividendo l’acqua, la divisione e discontinuazione si fa tra le parti dell’acqua che sono intorno intorno al perimetro e circonferenza di essa falda; e secondo la grandezza maggiore o minore di tal circuito, ha da dividere maggiore o minor quantità d’acqua: sì che, se il circuito, v. g., d’una tavola sarà dieci braccia, nel profondarla per piano si ha da far la separazione e divisione e, per così dire, un taglio su dieci braccia di lunghezza d’acqua; e similmente una falda minore, che abbia quattro braccia di perimetro, dee fare un taglio di quattro braccia. Stante questo, chi avrà un po’ di geometria comprenderà non solamente che una tavola, segata in molte strisce, assai meglio soprannoterà che quando era intera, ma che tutte le figure, quanto più saranno corte e strette, tanto meglio doveranno stare a galla. Sia la tavola ABCD, lunga, per esemplo, otto palmi e larga cinque: sarà il suo ambito palmi venzei; e venzei palmi sarà la lunghezza del taglio, ch’ella dee far nell’acqua per discendervi. Ma se noi la segheremo, v. g., in otto tavolette, secondo le linee EF, GH, ec., facendo sette , [p. 139 modifica] segamenti,verremo ad aggiugnere alli venzei palmi del circuito della tavola intera altri settanta di più; onde le otto tavolette, così segate e separate, avranno a tagliare novanzei palmi d’acqua: e se, di più, segheremo ciascuna delle dette tavolette in cinque parti, riducendole in quadrati, alli circuiti di palmi novanzei, con quattro tagli d’otto palmi l’uno, n’aggiugneremo ancora palmi sessantaquattro; onde i detti quadrati, per discender nell’acqua, dovranno dividere censessanta palmi d’acqua. Ma la resistenza di censessanta è assai maggiore che quella di venzei: adunque, a quanto minori superficie noi ci condurremo, tanto vedremo che più agevolmente galleggerebbono. E lo stesso interverrà di tutte l’altre figure, le cui superficie sieno fra di loro simili, ma differenti in grandezza; perché, diminuite o cresciute quanto si voglia le dette superficie, sempre con subdupla proporzione scemano o crescono i loro perimetri, cioè le resistenze ch’e’ trovano in fender l’acqua: adunque più agevolmente galleggeranno di mano in mano le falde e tavolette, secondo ch’elle saranno di minore ampiezza.

Ciò è manifesto: perché, mantenendosi sempre la medesima altezza del solido, con la medesima proporzione che si cresce o scema la base, cresce ancora o scema l’istesso solido, onde, scemando più ’l solido che ’l circuito, più scema la causa dell’andare in fondo che la causa del galleggiare; ed all’incontro, crescendo più ’l solido che ’l circuito, più cresce la causa dell’andar in fondo, e meno quella del restar a galla.

E questo tutto seguirebbe in dottrina d’Aristotile, contr’alla sua medesima dottrina.

Finalmente, a quel che si legge nell’ultima parte del testo, cioè che si dee comparar la gravità del mobile con la resistenza del mezzo alla divisione, perché se la virtù della gravità eccederà la resistenza del mezzo, il mobile discenderà, se no, soprannoterà; non occorre risponder altro che quel che già s’è detto, cioè che non la resistenza alla divisione assoluta, la quale non è nell’acqua o nell’aria, ma la gravità del mezzo, si dee chiamare in paragone con la gravità del mobile: la qual se sarà maggior nel mezzo, il mobile non vi discenderà, né meno vi si tufferà tutto, ma una parte solamente; perché nel luogo ch’egli occuperebbe nell’acqua, non vi dee dimorar corpo che pesi manco d’altrettant’acqua: ma se ’l mobile sarà egli più grave, discenderà al fondo, ad occupare un luogo dov’è più conforme [p. 140 modifica]alla natura che vi dimori egli, che altro corpo men grave. E questa è la sola, vera, propria e assoluta cagione del soprannotare o andare al fondo, sì che altra non ve n’ha parte: e la tavoletta degli avversari soprannuota, quando è accoppiata con tanta d’aria, che insieme con essa forma un corpo men grave di tanta acqua quanta andrebbe a riempiere il luogo da tal composto occupato nell’acqua; ma quando si metterà nell’acqua il semplice ebano, conforme al tenor della nostra quistione, andrà sempre al fondo, benché fosse sottile come una carta.



Il fine.

[p. 141 modifica]

Io Francesco Nori, Canonico Fiorentino, avendo rivista la presente opera, non ho in essa notato cosa alcuna disforme dalla pietà Cristiana né da’ buon costumi, e la giudico degna delle stampe.

Il dì ultimo di Marzo 1612.                    

Franc. Nori sopr. di man propr.


Attesa l’attestazione e relazione premessa, concediamo che la soprascritta opera si possa stampare in Firenze, osservati gli ordini soliti.                               2 d’Aprile 1612.

Pietro Niccolini Vic. di Firenze.


Ho riveduto la presente opera per parte del Sant’ufizio, e non ci ho trovato cosa repugnante alla cattolica fede e a’ buon costumi.

Ita attestor ego fr. Augustinus Vigianius, regens ordinis Servorum, manu propria.

Fra Cornelio Inquisitore di Firenze, 5 Aprile 1612.


Stampisi secondo gli ordini, questo dì 5 di Aprile 1612.

Niccolò dell’Antella Senatore.